Il Cielo di Ottobre
 

Una paio di costellazioni visibili in Ottobre

 

sud est : Balena - latino Cetuss abbreviazione Cet

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La costellazione della Balena (Fig. 1), in latino Cetus, è una delle più grandi della volta celeste. Coi suoi 1231 gradi quadrati di estensione, è preceduta solo dalla Vergine, dall’Orsa Maggiore e dall’Idra. E’ situata a sud-est e di conseguenza rimane bassa sull’orizzonte, condizione questa che, come per tutte le costellazioni meridionali, non ne facilita l’osservazione; il maggiore spessore atmosferico che la luce delle sue stelle deve attraversare, ne riduce infatti la luminosità (fisicamente il fenomeno va sotto il nome di estinzione atmosferica).

Oltretutto la Balena, come vedremo, è una costellazione con stelle poco brillanti – mediamente ha una magnitudine apparente complessiva di 3,71 – e questa caratteristica, sommata all’ampia estensione e alla poco favorevole collocazione celeste, richiede un certo allenamento prima di poterla agevolmente identificare. Ben quattro costellazioni zodiacali la circondano: i Pesci a nord, l’Ariete a nord-est, il Toro a est e l’Acquario a sud-ovest. La cingono invece a sud-est l’Eridano e la Fornace, mentre a sud è rivolta verso lo Scultore, le ultime due costellazioni essendo quasi completamente nell’emisfero australe.

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16 sono le stelle che ne tracciano la forma, ma sono quasi tutte di 3° e 4° magnitudine, quindi non particolarmente brillanti. Le più luminose sono soltanto due: Beta Ceti con magnitudine apparente pari a 2,04 e Alpha Ceti con 2,53. Si noti che solitamente la nomenclatura greca delle stelle è un indice della loro luminosità. Così la prima lettera dell’alfabeto greco, alpha, è data alla stella più brillante della costellazione, la lettera beta alla seconda stella più brillante e via dicendo. Fu l’astronomo tedesco Johann Bayer che nel XVII secolo catalogò le stelle secondo questo criterio, fra l’altro il primo di tipo scientifico, in quanto fino ad allora alle stelle veniva assegnato un nome legato alla loro posizione in cielo, e non uno inerente ad una loro proprietà fisica.

Tuttavia talvolta cadde in errore così che non sempre la nomenclatura degli astri rispettava l’esatta sequenza della loro luminosità. E’ il caso della Balena la cui stella alpha, come si può notare, non è la più luminosa, essendo preceduta dalla Beta. Dal momento che il catalogo di Bayer per motivi di tradizione storica non è stato corretto, occorre essere prudenti nella sua lettura, poiché è facile per alcune stelle essere tratti in inganno. La stella più fioca è Nu Ceti con magnitudine apparente 4,86, ossia è oltre tredici volte meno luminosa di Beta Ceti. La costellazione della Balena possiede un oggetto del catalogo di Messier che è M77 (Fig. 2), una galassia a spirale a 60 milioni di anni luce da noi. Ma il motivo per cui la costellazione è divenuta celebre, è la presenza di una stella molto particolare: Mira, la “meravigliosa”, la prima stella variabile scoperta.

Stelle famose nella costellazione della Balena

Mira

Fu il tedesco Johannis Hevelius che nel 1662 diede il nome Mira alla stella Omicron della costellazione della Balena. Mira significa meravigliosa, perché così l’astro apparve agli occhi di Hevelius. Non furono il colore od uno spiccato splendore ad incantarlo, bensì un comportamento ancora insolito per quei tempi: la stella nel giro di poco meno di un anno scompariva completamente alla vista e riappariva quasi un anno dopo. In verità non fu Hevelius il primo che la scoprì, fu colui che le diede un nome rimasto poi quello più usato per indicarla. Questa stella infatti era sicuramente stata vista fin dai tempi più antichi, tuttavia fu registrata nei cataloghi stellari soltanto a partire dal 1596 ad opera dell’astronomo tedesco David Fabricius. Non è un caso in realtà che la registrazione sia avvenuta in quel tempo. In Europa infatti, il XVI secolo fu rivoluzionario sotto molti aspetti e non mancò di esserlo anche dal punto di vista astronomico. Fino ad allora le stelle erano state considerate immutabili, sia in termini di posizione che di luminosità, in accordo con quanto asseriva l’astronomia greca.

Le precedenti Supernove del 1006 nel Lupo e del 1054 nel Toro, e la Nova del 1181 in Cassiopea furono annotate esclusivamente dagli astronomi cinesi e giapponesi. L’Occidente era nel pieno del Medioevo e, se anche qualcuno le avesse avvistate, non era certo disposto a mettere in discussione la teoria aristotelica e la perfezione di Dio. Probabilmente preferì distogliere lo sguardo e non pensarci più. Bisognò attendere appunto il XVI secolo, quando il Rinascimento svegliò le menti infondendo coraggio agli animi degli scienziati del tempo. Fu proprio del 1543 la teoria di Nicolò Copernico che scardinò l’ipotesi geocentrica a favore di quella eliocentrica. E per quanto riguarda le stelle che variavano la loro luminosità, fu il danese Tycho Brahe nel 1572 ad avvistare in Cassiopea una stella “nuova”, cioè una stella che fino ad allora in cielo non c’era. Tutte le stelle nuove che iniziarono ad accendersi nel cielo furono così battezzate col nome di “Novae”. Nessuno era in grado di dire quando queste stelle avevano fatto la loro prima comparsa, fatto sta che non essendo mai state registrate in nessun catalogo, bisognava necessariamente ammetterne la novità.

La seconda stella nuova scoperta dopo quella di Tycho, fu Mira ventiquattro anni dopo, nella costellazione della Balena. Fabricius, l’astronomo che la scoprì, ebbe la conferma che si trattava di una nuova stella, quando l’osservazione continuata gli mostrò che nell’arco di un anno scarso, la stella si affievoliva fino a scomparire. Di fatto, le novae che man mano venivano scoperte, erano tutte stelle che comparivano improvvisamente nel cielo e, più o meno lentamente, scomparivano. Si trattava insomma di stelle variabili, ma al tempo questa terminologia era prematura, poiché solo allora iniziava a sorgere il dubbio se le stelle novae, nel momento in cui si spegnevano, cessavano di esistere oppure continuavano la loro esistenza e, semplicemente, erano invisibili perché troppo deboli per l’occhio umano. La questione si chiarì nel 1638, quarantadue anni dopo, quando un astronomo olandese di nome Johann Holwarda, scoprì per primo che esistevano stelle variabili proprio osservando Mira Ceti. Sebbene la nomenclatura corretta avrebbe dovuto essere a quel punto quella di “stelle variabili”, gli astronomi del XVII secolo, ma anche quelli successivi, continuarono a chiamare “Novae” le stelle che cambiavano luminosità, nonostante sapessero ormai che non si trattava di stelle nuove, ma di intensità luminosa non costante. Mira è dunque diventata una stella famosa perché per prima ha invalidato la teoria aristotelica e cristiana dell’immutabilità del cielo e quindi delle stelle. Naturalmente, dal punto di vista scientifico, ha dato il via allo studio delle cosiddette stelle variabili, che si sono rivelate essere di due tipi: le variabili ad eclisse e le novae. Le variabili ad eclisse sono stelle che cambiano la loro luminosità perché sono legate gravitazionalmente ad un’altra stella, la quale ruotandole intorno la eclissa periodicamente. Le novae invece mostrano variazioni di luminosità per ragioni intrinseche. Generalmente si tratta di stelle con una massa dell’ordine di quella del nostro Sole, giunte alle fasi finali della loro vita, fasi che compromettono la stabilità della loro struttura; esse iniziano così a pulsare variando la propria luminosità anche di 100.000 volte. L’oscillazione può essere regolare se si ripresenta ad intervalli regolari di tempo, nel qual caso parliamo di variabili regolari; oppure può essere irregolare se non avviene ad un ritmo costante e parliamo di variabili irregolari. Possono essere infine a lungo periodo o a corto periodo a seconda del tempo che impiegano ad alterare la loro luminosità.

Venendo dunque alla nostra stella Mira, queste sono le sue caratteristiche.

Si trova a circa 420 anni luce da noi; ciò significa che l’immagine che vediamo oggi risale a 420 anni fa, ossia la vediamo com’era alla fine di quello straordinario XVI secolo. La sua magnitudine apparente varia da 3 a circa 10; si tratta di un salto enorme perché 7 magnitudini di differenza equivalgono ad un aumento/diminuzione di luminosità pari a 630 volte! La variabilità luminosa avviene in 330 giorni, ossia nell’arco di 11 mesi e la fase di aumento dell’intensità di luce avviene più rapidamente della fase di diminuzione. Un intervallo di tempo di quest’ordine di grandezza è piuttosto elevato ed infatti Mira è stata definita come una variabile a lungo periodo. Tutte le stelle la cui variabilità avviene su un periodo che va dagli 80 giorni ai 1000 – in altri termini da circa 3 mesi a circa 3 anni – sono dette “variabili a lungo periodo” o “variabili di tipo Mira”, in quanto Mira ne costituisce il prototipo. Il suo tipo spettrale è M7III dove: la lettera M ci dà un’indicazione sul colore e sulla temperatura superficiale della stella, che risulta così essere rossa con una temperatura compresa in un intervallo fra i 3.000°K e i 4.000°K, tra le più fredde; il numero 7 restringe ulteriormente il campo dicendoci che la sua temperatura è più vicina al limite inferiore (3.000°K) piuttosto che a quello superiore (4.000°K). Le misure danno infatti per Mira una temperatura superficiale che varia da 2.918°K a 3.192°K; il numero romano III, rappresenta una classificazione in termini di fase evolutiva della stella o, detta in altre parole, ci dice a che punto della sua vita è; la classe III è riservata alle stelle Giganti. Ed infatti Mira è una stella gigante rossa, ossia una stella giunta ormai alle fasi finali della sua vita. Si è stimato che abbia circa 6 miliardi di anni, ossia un anno in più del Sole, mentre il combustibile che la tiene accesa è l’elio.

Bisogna sapere che l’esistenza di una stella è regolata dalla combustione di determinati gas: essa inizia la sua vita sottoforma di un’enorme sfera di gas di idrogeno, l’elemento chimico più leggero, il quale brucia alla temperatura di 10 milioni di gradi Kelvin. Questa fase è anche la tappa più lunga e stabile della sua vita. Man mano che l’idrogeno si consuma, si converte nell’elemento immediatamente successivo che è l’elio, il quale a sua volta bruciando si trasforma in un altro elemento più pesante che è il carbonio. La conversione non avviene però in modo uniforme, ma ha inizio sempre nel nucleo e procede attraverso i “gusci” successivi di gas che lo avvolgono. Pertanto solo quando il nucleo di idrogeno è diventato un nucleo di elio, gli strati successivi iniziano a trasformare l’idrogeno di cui sono composti, in elio. A questo punto, la coesistenza di due tipi di combustione – di elio nel nucleo e di idrogeno nei gusci – mette a repentaglio l’equilibrio termodinamico della stella, la quale diventa instabile: la maggiore forza di gravità sprigionata dal nucleo, divenuto più pesante perché trasformatosi in elio, lo fa infatti collassare su se stesso, provocando un brusco innalzamento della temperatura; i gusci di idrogeno immediatamente più esterni, da un lato vengono riscaldati dal nucleo più rovente, mentre dall’altro iniziano a dilatarsi perché il nucleo contraendosi non esercita più su di essi la forza gravitazionale necessaria a tenerli legati a sé. Essi si espanderanno (con conseguente raffreddamento a causa della rarefazione del gas) fino a quando il nucleo di elio non smetterà di rimpicciolirsi per effetto della propria gravità, e tornerà per così dire a “tenere sotto controllo” la situazione degli strati esterni, attraendoli di nuovo a sé. Per mantenere in vita una stella una volta esaurito l’idrogeno del nucleo, si innesca quindi un gioco di continuo bilanciamento delle forze di gravità e di pressione di radiazione che durerà milioni di anni, e che si traduce in una continua contrazione e dilatazione degli strati più esterni dell’astro. Queste oscillazioni di dimensione corrispondono per noi alla variazione di luminosità che registriamo osservando la stella. In particolare durante la fase di contrazione, la stella diminuisce la sua luminosità, mentre la recupera quando si espande, grazie alla maggiore superficie emittente.

Un giorno, anche il nostro Sole diventerà una stella di tipo Mira. Accadrà fra cinque miliardi di anni, quando la sua riserva di idrogeno sarà finita. Bruciando l’elio il Sole diventerà una stella Gigante Rossa, proprio come è adesso Mira Ceti.


 

zodiaco : Pesci - latino Pisces abbreviazione Psc

 

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La costellazione dei Pesci (Fig. 3) si trova sulla fascia zodiacale in direzione sud-est e si estende per 889 gradi quadrati; ha dunque dimensioni che iniziano ad essere importanti, ed infatti è la 14ma costellazione più grande delle 88 che popolano la sfera celeste. Le costellazioni con cui confina sono: Andromeda a nord, il Triangolo a est, la Balena a sud, l’Acquario a sud-ovest e Pegaso ad ovest. Si possono contare fino a 19 stelle lungo la sua ampia sagoma che si apre a triangolo. Tuttavia sono tutte stelle poco brillanti, tanto che la stella più luminosa, Eta Piscium, è di appena 3,62 magnitudini. Segue la Gamma con 3,69 e poi vi è un lungo elenco di 16 stelle di 4a magnitudine – fra cui quella identificata da Bayer come la Alpha, che è due volte meno luminosa della Gamma – il quale culmina con la Zeta Piscium quasi al limite della visibilità umana per via delle sue 5,24 magnitudini. Questo significa che la stella più brillante della costellazione è 4,45 volte più luminosa di quella più debole. Le 19 stelle che formano i Pesci contribuiscono a dare alla costellazione una magnitudine apparente media pari a 4,42 impedendole così di stagliarsi nitidamente fra le altre, a meno di non trovarsi sotto un cielo ben scuro. Può aiutarne il riconoscimento la forma che risulta invece semplice assomigliando ad un triangolo aperto ad una estremità del quale pare essere appeso un

piccolo aquilone. La costellazione dei Pesci è quella che attualmente ospita il cosiddetto punto vernale o d’Ariete, più conosciuto come equinozio di primavera. Il 21 di marzo infatti, la Terra si trova nel punto di intersezione fra l’equatore celeste, che è la proiezione nel cielo del suo piano equatoriale, e l’eclittica, che è l’orbita su cui ruota attorno al Sole e che completa in 365 giorni. Il piano dell’eclittica è inclinato di 23,5° rispetto al piano equatoriale e i due punti in cui si intersecano sono i cosiddetti ”equinozi”, che cadono uno il 21 di marzo dando inizio alla primavera, e l’altro il 23 settembre inaugurando l’autunno.

Il nome “equinozio” deriva dal latino aequi che significa uguale e nox che significa notte. In questi due giorni infatti, il giorno e la notte hanno la stessa durata in tutto il mondo. L’equinozio di primavera in particolare, è chiamato anche punto d’Ariete perché quando gli Antichi Greci lo identificarono, si trovava nella costellazione dell’Ariete. Siccome però l’asse che collega i due poli terrestri non gira su se stesso mantenendo perfettamente la direzione nord-sud, ma oscilla compiendo una rotazione simile a quella di una trottola, accade che il polo nord tracci un cerchio completo – immaginario – sulla volta celeste in un arco di tempo di circa 26.000 anni. In altre parole significa che il polo nord terrestre, che attualmente punta verso la stella polare, non ha puntato sempre lì e non punterà sempre lì. Questo fenomeno, chiamato precessione degli equinozi, fa sì che anche il piano equatoriale terrestre, perpendicolare all’asse polare, venga trascinato nello stesso movimento circolare modificando così il suo orientamento e, di conseguenza, anche i punti di intersezione con l’eclittica, cioè i punti equinoziali, si troveranno in posizioni differenti. Se quindi ai tempi degli Antichi Greci il punto vernale si affacciava sulla costellazione dell’Ariete (Fig. 4), duemila anni dopo si è spostato in quella dei Pesci (Fig. 5). Di fatto dunque oggi dovrebbe chiamarsi punto dei Pesci, ma ovviamente le ragioni storiche e convenzionali lasciano invariata la nomenclatura. Il fenomeno si chiama precessione degli equinozi poiché questi vengono raggiunti dalla Terra ogni anno 20 minuti prima.

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I Pesci infine ospitano un oggetto del catalogo di Messier, M74, una galassia a spirale distante 35 milioni di anni luce dalla Terra (Fig. 6).

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nord ovest : Andromeda - latino Andromeda abbreviazione And

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Le stelle di Andromeda fanno la loro apparizione all’inizio del mese di giugno, e se ne vanno nove mesi dopo, a febbraio.

Andromeda è dunque una costellazione visibile per gran parte dell’anno, e questo grazie alla sua posizione settentrionale che la tiene alta sull’orizzonte, concedendo a quest’ultimo di nasconderla sotto di sé solo per tre mesi.

Di per sé Andromeda non è di immediata identificazione perché si estende su un vasto tratto di cielo senza possedere un particolare corredo di stelle che ne agevoli il tracciato all’occhio. La costellazione infatti è la diciannovesima più grande fra le 88 esistenti con 722 gradi quadrati di dimensione.

Tuttavia il suo riconoscimento viene facilitato grazie a una costellazione di facile identificazione confinante con essa: si tratta di Cassiopea, piccolo gruppo di stelle dall’inconfondibile forma a W, posto a nord pochi gradi al di sotto della Stella Polare. Partendo da Cassiopea e scendendo con lo sguardo si incontra Andromeda, una sorta di V corsiva allungata e ruotata di circa 45° gradi verso est (Fig. 7 ).

Proseguendo in senso orario, le altre costellazioni che la attorniano sono la Lucertola a ovest, l’enorme Pegaso da sud-ovest a sud-est con cui condivide la sua stella Alpha, i Pesci a sud-est, il Triangolo a est, Perseo a nord-est e Cassiopea a nord (Fig. 8 ).

Le stelle che formano la sua sagoma, come dicevamo, sono poche. La lettera V di cui dicevamo è composta da 8 puntini luminosi, ma di fatto sono solo 3 i più brillanti, quelli che formano il primo dei due segmenti

della V; Andromeda è perciò ben visibile solo per metà. Le stelle che la accendono sono Alpha, Beta e Gamma 1, tutte di 2nda magnitudine apparente.

In particolare Alpha Andromedae, la più luminosa della costellazione, è di 2,06 magnitudini apparenti. Lo stesso dicasi di Beta Andromedae, mentre Gamma 1 si discosta di 0,20 magnitudini con il suo valore pari a 2,26.

La stella più debole si trova invece sul segmento opposto ed è Pi Andromedae, 8 volte più spenta della Alpha, con 4,36 magnitudini apparenti.

Mediamente, la costellazione è di 3° magnitudine, non particolarmente splendente dunque.

Ma se lo splendore non è la caratteristica distintiva di Andromeda, lo è invece uno degli oggetti più famosi e suggestivi che la abitano: si tratta della celebre Galassia che da essa ha preso il nome (Fig. 9 ), il cui primo appellativo fu M31, essendo il 31° oggetto non puntiforme identificato dall’astronomo francese Messier nel 1764.

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Oggetti famosi nella costellazione di Andromeda

La Galassia di Andromeda (M31)

Fino a dove può arrivare a scrutare il nostro occhio da solo l’infinità cosmica? Fatta dall’incontentabile Uomo questa domanda ha un sapore forse un po’ provocatorio nei confronti dell’incommensurabile potenza che ci sovrasta senza un inizio né una fine. E i più remissivi saranno sicuramente portati a concludere che non molto lontano possiamo spingerci, o meglio ci è dato di poterci spingere; in fondo che cos’è mai il nostro occhio quando si affaccia su un paesaggio punteggiato di luci senza orizzonte se non quello dovuto alla Terra, vivo da un tempo quasi eterno se paragonato al frammento insignificante della nostra esistenza? Eppure, nonostante questo sia vero, al nostro sguardo è consentito addentrarsi nelle profondità celesti più di quanto si immagini: fino a ben 2 milioni e mezzo di anni luce. Per avere un’idea della distanza di cui stiamo parlando, si pensi che la nostra galassia, la Via Lattea, ne misura in lunghezza circa 100.000. Il nostro occhio può arrivare a 25 volte tanto. Là, a nord della costellazione di Andromeda, in corrispondenza della stella Beta, in una notte limpida e senza vento, scorgerà un tenue batuffolo bianco, così discreto in mezzo a tante stelle da passare inosservato.

E se non ha dimestichezza con i percorsi siderali, non sa di star guardando uno degli oggetti più sobri ed eleganti che l’Universo ci regala: la Galassia di Andromeda, la più vicina alla nostra per noi abitanti dell’emisfero boreale.

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Là ci è dato di ammirare la nostra gemella che galleggia nello spazio con i suoi 400 miliardi di stelle, ad una inclinazione di 15° rispetto alla nostra linea di vista (Fig. 10 ).

Andromeda ha una magnitudine apparente di 4,4, dunque ancora entro la soglia di sensibilità dell’occhio umano, e fu avvistata per la prima volta da un astronomo arabo di nome Al Sufi nel 964. Naturalmente egli non poteva sapere che si trattava di una galassia, dato che non sapeva nemmeno che cosa fosse una galassia. Egli si limitò a registrarne la presenza in cielo nel suo “Libro delle Stelle Fisse” descrivendola come una debole nebulosità. Dovrà trascorrere molto tempo prima che l’uomo capisca che si tratta di una galassia, 10 secoli per la precisione. Sì perché la scoperta dell’esistenza delle galassie risale appena al XX secolo, a ieri in pratica. Storicamente l’ipotesi che esistessero altri sistemi stellari – così venivano chiamate le galassie – oltre al nostro sia in termini quantitativi che di confine, fu avanzata dalla filosofia e non dall’astronomia come sarebbe scontato. Fu nella seconda metà del 1700 che filosofi come Immanuel Kant, Thomas Wright e altri meno noti ai profani proposero l’esistenza dei cosiddetti “universi-isola”, sistemi di stelle talmente lontani da non potervi distinguere i loro astri. L’ipotesi risultò accattivante all’interno della comunità scientifica, e fra gli astronomi spiccò il nome dell’ingelse William Herschel. Tra i suoi tanti contributi spaziali – fu infatti lo scopritore del pianeta Urano e il primo ad abbozzare la forma a spirale della nostra galassia – si appassionò talmente a questa possibilità che col telescopio scandagliò nei minimi dettagli il cielo boreale fino a disporre di un catalogo di ben 2.500 nebulose, tutte potenzialmente universi-isola. Fra queste vi era anche Andromeda, da lui annotata nel 1780 e collocata come scrisse a “2000 volte la distanza di Sirio” da noi, vale a dire a circa 17.000 anni luce di distanza. Herschel non poté mai sapere se le sue nebulose erano degli universi-isola o piuttosto delle enormi nubi di gas in cui nascevano le stelle, che era l’ipotesi scientifica avanzata insieme a quella filosofica. E meno di un secolo dopo, negli anni ’60 del 1800, il sogno di tanti sostenitori come Herschel fu destinato a svanire: l’avvento di una particolare metodologia di studio dei corpi celesti, la spettroscopia, chiarì infatti la natura di quelle nebulose che, nella maggior parte dei casi, si rivelarono essere proprio quelle gigantesche nubi gassose all’interno della Via Lattea nelle quali prendono vita le stelle. L’immagine di Andromeda fu analizzata con lo spettroscopio nel 1864 e il dispositivo rivelò che essa presentava caratteristiche identiche a quelle che mostravano le stelle studiate con lo stesso strumento.

M31, il nome di Andromeda dato esattamente cento anni prima dall’astronomo Charles Messier, non risultava quindi essere una nebulosa, ma occorrevano ancora altre prove prima di concludere che si trattava di un universo-isola.

La prima fotografia di Andromeda fu del 1887 e la sua immagine si rivelò qualcosa di assolutamente nuovo e sbalorditivo: un sorta di vortice, rimpicciolito per la grandissima distanza ma non per questo privato della sua maestosità, giaceva sperduto sullo sfondo nero dello spazio.

Durante la I Guerra Mondiale, l’astronomo Harlow Shapley, l’ultimo direttore dell’osservatorio di Harvard, poté finalmente provare che la Via Lattea è un sistema di stelle che lo sono anche le due Nubi di Magellano visibili nel cielo australe, la cui natura era fino ad allora sconosciuta. Non solo, ma egli trovò che esse si trovavano oltre i confini della Via Lattea: gli universi-isola dunque esistevano, ed esistevano ora col nome di “galassie”.

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Shapley giunse alle sue conclusioni mentre era intento a calcolare la distanza degli ammassi globulari, magnifiche gemme celesti stipate di stelle lucenti a centinaia. Per lo scopo si servì delle Cefeidi in essi contenute, un particolare tipo di stelle disseminate in varie zone della Via Lattea la cui caratteristica è di pulsare con estrema regolarità. Senza entrare nei dettagli della teoria, basti sapere che proprio grazie a questa peculiarità esse rappresentano per gli astronomi affidabilissimi indicatori di distanza, ragion per cui Shapley fu in grado di posizionare gli ammassi globulari nello spazio galattico e di scoprire che essi formano una sorta di alone attorno alla nostra Via Lattea. Ciò gli permise di valutare le dimensioni della Via Lattea, nonché di indicare la distanza e la direzione del nucleo galattico: il cuore della galassia risultò trovarsi a circa 50.000 anni luce dalla Terra nella costellazione del Sagittario.

La scoperta portava con sé un capovolgimento dello scenario allora vigente e cioè che il Sistema Solare non era affatto al centro della galassia, come invece aveva sostenuto William Herschel insieme all’astronomo J. C. Kapteyn, ma anzi si trovava in una regione periferica (Fig. 11).

Potremmo dire che nel XX secolo si verificò in astronomia una sorta di rivoluzione simile a quella copernicana e galileiana, senza fortunatamente ripercussioni teologiche.

L’ulteriore prova che i vecchi universi-isola erano sistemi stellari giganteschi e lontanissimi arrivò nel 1925 con i risultati dell’astronomo Edwin Hubble, in onore del quale è stato intitolato il famoso telescopio spaziale in orbita da quasi vent’anni attorno alla Terra.

Grazie al potenziamento tecnologico, Hubble poté disporre per le sue notti osservative del telescopio più grande del mondo, il riflettore da due metri e mezzo dell’Osservatorio di Monte Wilson, a Pasadena in California.

Finalmente le nebulose che la spettroscopia aveva classificato “di natura stellare”, svelavano le loro stelle; ecco allora la Galassia di Andromeda M31 con le sue galassie satelliti M32 e M110 o NGC205 (Fig. 12 ), e molte altre ancora.

Di nuovo le preziose Cefeidi in esse presenti aiutarono Hubble a risalire alla loro distanza e la soddisfazione fu grande quando dimostrarono che le nebulose erano tutte oltre i confini della Via Lattea, proprio come era stato riscontrato per le Nubi di Magellano.

Le carte celesti sulle quali nei primi anni del XX secolo erano state segnate circa 13.000 nebulose, furono di

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conseguenza aggiornate: da Hubble per l’emisfero boreale e da Shapley per quello australe. I due scienziati evidenziarono quali tra quei cerchietti ancora senza identità erano galassie e il risultato fu che esse costituivano più del 90% di quelle macchioline! Non solo: le galassie erano così numerose che per ogni stella ve ne erano 6! Le galassie più lontane identificate da Hubble si trovavano, secondo le sue stime, a 3 milioni di anni luce, ma le misure successive rivelarono che il famoso astronomo in realtà si addentrò nello spazio oltre 1 miliardo di anni luce… I suoi numerosi campioni di galassie gli consentirono di classificarle morfologicamente e così si seppe che esse potevano avere forma di spirale, ellittica o irregolare (Fig. 13 ).

Andromeda, come la Via Lattea, è una galassia a spirale; questo tipo di galassia è fatta di tre “pezzi” (Fig. 14 ): vi è un nucleo centrale costituito da un enorme numero di stelle a tutta velocità attorno a quello che molto probabilmente è un buco nero situato nel centro; un alone di stelle e ammassi globulari formati da stelle vecchie che l’avvolge interamente; un disco dove giovani stelle blu si dispongono a formare lunghi bracci di spirale, anch’esse in rotazione – più lenta – attorno al nucleo.

L’astronomo che studiò Andromeda nei dettagli riuscendo a risolvere in stelle il suo nucleo, fu Walter Baade durante gli anni della II Guerra Mondiale. Egli

ebbe il merito di scoprire che le stelle lungo i bracci erano diverse da quelle nel centro: le prime blu a indicare che erano stelle giovani, le seconde rosse indice di stelle vecchie. E questa differenza valeva anche per le provvidenziali Cefeidi, che mostrarono due luminosità molto diverse a seconda che fossero giovani o vecchie. Dal momento che dalla luminosità si risaliva alla distanza, una simile conclusione ebbe un impatto enorme sulle misure fatte sino ad allora, in quanto implicava la totale revisione delle distanze precedentemente calcolate.

E infatti i valori di Hubble si rivelarono notevolmente sottostimati; M31 per esempio risultò lontana il doppio di quanto aveva dedotto. Andromeda si trova infatti a circa 2,5 milioni di anni luce da noi. Ciò significa che la sua luce impiega 2,5 milioni di anni per raggiungerci, che è come dire che l’immagine che vediamo oggi è quella di 2,5 milioni di anni fa, ossia quando faceva la sua comparsa sulla Terra l’Homo Habilis…

Andromeda è anche una galassia supergigante, attraversarla longitudinalmente richiede a un raggio di luce 200.000 anni, il doppio di quanto avviene per la Via Lattea, che appartiene anch’essa comunque alla classe delle galassie giganti.

La sua luminosità invece è simile a quella della nostra galassia avendo una magnitudine assoluta pari a –20. In realtà per la sua dimensione ci si aspetterebbe un bagliore più intenso, ma la sua massa è 1,5-2 volte inferiore a quella della Via Lattea (300-400 miliardi di masse solari contro i 600 miliardi della nostra), ragion per cui bisogna concludere che la densità delle sue stelle è minore che non nella nostra. Andromeda infine ci sta venendo incontro… Le osservazioni infatti hannorivelato che viaggia nello spazio a 200 km/s nella no-

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stra direzione. Ma anche noi ci stiamo muovendo verso la nostra vicina; più o meno le due galassie si stanno avvicinando a 100 km/s. Un giorno la Via Lattea e M31 collideranno e si verificherà quello che in gergo tecnico si chiama “cannibalismo galattico”, probabilmente la più grande catastrofe cosmica che possa accadere. A quella velocità, l’evento dovrebbe accadere fra almeno 3,7 miliardi di anni che, a noi sembra un tempo esagerato, ma a pensarci bene non lo è per il nostro compagno di vita di tutti i giorni: il Sole. La nostra stella infatti ha ancora davanti a sé 5 miliardi di anni prima di iniziare il suo ultimo tramonto, tuttavia la sua esistenza verrà minacciata prima. Ciò che succederà quel giorno è per noi inimmaginabile, qualcosa che possiamo definire solo col termine “apocalittico”, senza comunque riuscire (per fortuna) ad immedesimarci. L’unica cosa che possiamo dire è che da quell’immane scontro cosmico nascerà una nuova galassia e, semmai ci fosse qualcuno in un angolo di Universo ad osservarla, disegnerà sul suo atlante celeste un simbolo ellittico accompagnato dalla dicitura “Irr”, abbreviazione per indicare solo una fra le tante galassie irregolari.

Nord : Lucertola - latino Lacerta abbreviazione Lac
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La Lucertola (Fig. 1L) è una piccola costellazione posta nel cielo boreale in direzione nord, la cui sagoma zigzagante è fatta di 7 stelle, cinque delle quali sono visibili alla nostra latitudine durante tutto l’anno. Se non fosse per le due stelle che rimangono sotto l’orizzonte nei mesi di febbraio e marzo, la Lucertola sarebbe una costellazione circumpolare, ossia visibile tutto l’anno.

Con i suoi 201 gradi quadrati di estensione, la Lucertola è la 68ma costellazione in ordine di grandezza fra le 88 dell’intera volta celeste e la 40ma delle 49 appartenenti all’emisfero boreale, dunque una delle più piccole.

Le sue stelle principali sono 7 e non sono particolarmente splendenti, tant’è che il loro raggruppamento in costellazione è avvenuto in tempi relativamente recenti.

Fu infatti l’astronomo polacco Johannes Hevelius che nel 1687 le unì idealmente associando la figura risultante all’immagine stilizzata di una lucertola (Fig. 2L). In realtà, il nome esatto con cui battezzò la nuova costellazione fu “Lacerta sive Stellio”, ossia lucertola o stellione, un anfibio preistorico simile al tritone e alla salamandra. Evidentemente, passano i secoli, aumentano le conoscenze scientifiche, ma la disposizione delle stelle non smette di alimentare le fantasie più bizzarre!

Tornando ai dati astronomici, l’identificazione della Lucertola richiede un cielo buio poiché le sette stelle principali sono tutte di quarta magnitudine visuale, ad eccezione della Alpha, la più luminosa, che rimane in ogni caso poco brillante essendo di terza magnitudine. Grazie però alle dimensioni contenute e alla forma nitida della Lucertola, è possibile rintracciarla piuttosto facilmente attraverso le costellazioni con cui confina (Fig. 3L): Cefeo a nord, il Cigno a ovest, Pegaso a sud, Andromeda da sud-est a est, mentre completa il giro a nord-est Cassiopea.

E proprio nominando Cassiopea, approfittiamo per dire che la Lucertola è conosciuta anche come la Piccola Cassiopea, in quanto la sua forma a W ricorda in miniatura quella della limitrofa costellazione. Lungo questa W si trovano come abbiamo detto sette stelle, la più luminosa delle quali è Alpha Lacertae con magnitudine apparente 3,77, mentre la più debole è 2 Lacertae che con le sue 4,57 magnitudini apparenti, è due volte meno luminosa di Alpha (Fig. 1L). Proprio per la loro scarsa luminosità, le stelle della Lucertola non sono state elevate a costellazione dagli antichi e questo è il motivo per cui ad essa non è associato nessun mito.

La costellazione di Hevelius è anonima anche in termini di stelle od oggetti celesti “famosi”. Addentrandosi infatti nelle sue profondità, non vi sono oggetti del celebre catalogo di Messier o galassie luminose e nemmeno gli affascinanti ammassi globulari. Questo perché la Lucertola giace prospetticamente sul disco della Galassia – cioè è immersa nella Via Lattea (Fig. 4L) – il quale contiene le stelle più giovani; gli ammassi globulari sono invece composti dalle stelle più vecchie e si trovano lontano dal disco, nel cosiddetto alone della Galassia.

Si trovano invece degli ammassi aperti, tipiche formazioni stellari del disco, ma di minor impatto scenico.

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nord : Aquila - latino Aquila abbreviazione Aql

L’Aquila (Fig. 1) è una costellazione che rimane interamente visibile nel periodo che va da metà maggio a metà ottobre. Le prime stelle a sorgere sono Epsilon e Zeta all’inizio di aprile, mentre alla fine del mese affiorano Beta, Gamma, Delta e Alpha Aquilae, meglio nota come Altair, la stella più brillante della costellazione e la dodicesima per luminosità fra quelle dell’emisfero boreale. L’ultima a sorgere due settimane dopo è Theta Aquilae che completa così la costellazione. Se Epsilon e Zeta sono le prime stelle dell’Aquila a sorgere, esse sono anche le prime a tramontare; l’inizio del tramonto della costellazione avviene a partire dalla metà di ottobre ma Altair rimane visibile per un altro mese ancora, dopodiché con la metà di novembre l’Aquila non è più visibile in cielo. Il periodo in cui la costellazione si trova al culmine, ossia nel punto più vicino al nord, è l’inizio di agosto.

L’Aquila si estende per 652 gradi quadrati di cielo piazzandosi così al 22° posto fra le 88 costellazioni della volta celeste. Identificarla è piuttosto semplice grazie alla presenza di Altair. Il modo più veloce per trovarla è localizzare il cosiddetto Triangolo Estivo (Fig. 2). Si tratta di un asterismo formato da tre stelle ciascuna appartenente a una costellazione diversa, le quali si distinguono per la loro elevata luminosità e disposizione a triangolo. Si tratta di Deneb nel Cigno, di Vega nella Lira e appunto di Altair. Deneb è riconoscibile perché è il vertice della Croce del Nord, l’altro nome con cui è nota la costellazione del Cigno. Vega invece appartiene a una piccola costellazione a forma di parallelepipedo. Per esclusione la terza stella più brillante di questo triangolo è Altair. Rispetto a quest’ultima la costellazione si estende in direzione sud. Possiamo dire che Altair è il vertice dell’Aquila, la cui forma è anch’essa grossomodo triangolare.

Le costellazioni che confinano con l’Aquila sono ben nove: la Freccia a nord, Ercole a ovest, l’Ofiuco, il Serpente e lo Scudo a sud-ovest, il Sagittario e il Capricorno a sud, l’Acquario a sud-est, mentre il Delfino chiude il cerchio a est (Fig. 3).

L’Aquila inoltre è per buona parte immersa nella Via Lattea (Fig. 4), Altair stessa si trova investita da quella scia di stelle talmente fitte da sembrare polvere bianca.

Le stelle che danno la forma alla costellazione sono undici, la maggior parte delle quali è di 3a magnitudine apparente. La più luminosa è appunto Altair con 0,77 magnitudini, mentre la più debole è Iota Aquilae con 4,36, una differenza molto importante se si pensa che significa che è quasi trenta volte più spenta di Altair.

Le undici stelle dell’Aquila danno un contributo medio di 3,32 magnitudini apparenti, cosicché la costellazione risulta nel complesso di 3a classe.

Nell’Aquila non vi sono oggetti del catalogo di Messier, ma la collocazione all’interno della Via Lattea fa sì che sia ricca di ammassi stellari e di nebulose seppur deboli.

nord : Freccia - latino Sagitta abbreviazione Sge

La Freccia (Fig. 5) è una delle più piccole costellazioni della volta celeste. Essa infatti si estende per soli 80 gradi quadrati di cielo, risultando così la terzultima costellazione fra le 88 esistenti e la penultima nel nostro emisfero boreale.

Sorge a metà a aprile e rimane visibile fino alla fine di novembre raggiungendo a inizio agosto il punto più alto della sua parabola celeste. Sulle prime identificarla non è immediato perché le quattro stelle che la compongono sono poco appariscenti; tuttavia la Freccia gode di una posizione privilegiata per cui è possibile risalire agevolmente al suo profilo.

Essa si trova infatti all’interno del Triangolo Estivo (Fig. 6), il triangolo luminoso formato dalle stelle Deneb nel Cigno, Vega nella Lira e Altair nell’Aquila. Individuando questo gruppo di stelle e focalizzandosi su Altair, è visibile la Freccia proprio poco sopra l’astro principale dell’Aquila.

Le costellazioni con cui confina la Freccia sono la Volpetta a nord, Ercole a ovest, l’Aquila da sud-ovest a sud mentre chiudono il cerchio il Delfino e di nuovo la Volpetta (Fig. 7).

La Freccia è inoltre completamente immersa nella Via Lattea sicché anche la pallida scia luminosa contribuisce a sfumare la già debole luce della costellazione (Fig. 8).

La stella più brillante della Freccia è quella che ne rappresenta la punta ed è Gamma Sagittae con 3,47 magnitudini apparenti, segue Delta con 3,82 mentre a pari merito, due volte più fioche di Gamma, luccicano Alpha e Beta con 4,37, la coda dello strale.

Mediamente le quattro stelle danno un contributo di luce alla costellazione di 4,01 magnitudini, confermando la scarsa luminosità della stessa.

In questa piccola costellazione non manca però un oggetto del famoso catalogo di Messier. Si tratta dell’ammasso globulare M71 (Fig. 9), situato circa a metà della linea che congiunge Gamma con Delta Sagittae (Fig. 5). Gli ammassi globulari sono concentrazioni molto dense di stelle, anche centinaia di migliaia, tutte tenute insieme dalla gravità, motivo per cui l’insieme assume una forma sferica assomigliando appunto a un globulo. Questi oggetti si trovano ai confini delle galassie a spirale e ne rappresentano il cosiddetto alone. Nella nostra galassia se ne contano circa 150. Per essere globulare, M71 è tuttavia diverso dagli altri ammassi di questo tipo in quanto, al contrario di quanto avviene solitamente, non si distingue per compattezza. D’altra parte non è nemmeno classificabile con certezza come ammasso aperto perché sarebbe risultato un po’ troppo denso. Il dibattito sulla natura di M71 è rimasto acceso per diversi anni tanto che ancora oggi i pareri non sono concordi all’unanimità. Ufficialmente M71 è stato classificato come ammasso globulare “sciolto”.

 

Situato a 13.000 anni luce dalla Terra, ha un diametro di 27 anni luce che potrebbe salire a 90 se le deboli stelle scoperte recentemente attorno ad esso si rivelassero legate gravitazionalmente alle altre che lo costituiscono. M71 è uno dei più vecchi oggetti dell’universo, la sua età si aggira sui 9-10 miliardi di anni.

La fortunata posizione all’interno della Freccia rende l’ammasso facilmente localizzabile, mentre la luminosità pari a 8,2 magnitudini apparenti, ne permette la visione semplicemente con l’aiuto di un binocolo.

Ilaria Sganzerla


Immagini:

  • Figure 1, 3, 4, 5: SW Cartes du Ciel
  • Figura 2: http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/6/64/Spiral_Galaxy_M77.jpg
  • Figura 6: http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/6/6a/NGC_628.jpg
  • Figure 7, 8: immagini ottenute col sw Cartes du Ciel
  • Figura 9: http://www.gizarastro.it/m31_tlc_2008.html
  • Figura 10: http://www.gizarastro.it/m31_tlc_2008.html
  • Figura 11: An Atlas of The Universe - www.atlasoftheuniverse.com
  • Figura 12: http://www.gizarastro.it/ Tlc_Andromeda1.html
  • Figura 13: http://naasbeginners.co.uk/AbsoluteBeginners/Galaxies.htm
  • Figura 14: http://media.skyandtelescope.com/images/6187.jpg
  • Figure 1L, 3L, 4L: immagini ottenute col sw Cartes du Ciel
  • Figura 2L: dall’Uranographia di Hevelius

Fonti:

  • Astronomy Now, Variable stars and the amateur astronomer, July 2002
  • Atlanti Scientifici Giunti, Astronomia, Ed. Giunti, 1993
  • Isaac Asimov, Supernovae, Ed. BUR, 1998
  • Mario Cavedon, Astronomia, Ed. Mondadori, 1992

Internet:

  • Wikipedia - http://en.wikipedia.org/wiki/Cetus_(constellation)
  • Wikipedia - http://en.wikipedia.org/wiki/Mira
  • Wikipedia - http://en.wikipedia.org/wiki/Pisces_(constellation)
  • Wikipedia - http://en.wikipedia.org/wiki/Lacerta

 

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