Il mese di Aprile nel mito e nell'arte
 

Vergine

Tempo di lettura: 45 minuti. Ma non avere fretta, prenditi tutti i 30 giorni di aprile.

Diverse sono le figure femminili che gli antichi associarono alla costellazione della Vergine.

Secondo il poeta Esiodo ed il mitografo Arato, si trattava di Dike, la dea della Giustizia, la quale inizialmente dimorava insieme agli uomini durante l’età dell’oro, quando a governare le sedi celesti era non Zeus ma suo padre Crono, il divoratore dei suoi figli.

In quei tempi, gli uomini non dichiaravano guerra alle nazioni straniere, né alcuno conosceva l’uso della navigazione, ma passavano la vita a coltivare i campi. (Hygino, Poeticon Astronomicon)

O, addirittura come racconta Esiodo:

Tutti i beni erano per loro, la fertile terra dava spontaneamente molti e copiosi frutti ed essi tranquilli e contenti si godevano i loro beni, tra molte gioie. (Esiodo, Le Opere e i Giorni, 116-118)

Ma quando quella stirpe si estinse, generazioni sempre più corrotte vennero al mondo. Fu la volta dell’età dell’argento con i suoi esseri umani stolti e incuranti degli dèi, dopodiché toccò all’età del bronzo, guerriera e prepotente:

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A questi umani stavano a cuore le opere luttuose e le violenze di Ares, né mangiavano pane, bensì avevano il cuore di ferro e senza paura. (Esiodo, Le Opere e i Giorni, 145-147)

Perduta per sempre l’innocenza dell’età dell’oro, Dike abitò sempre meno sulla terra e, all’avvento della razza del bronzo, non sopportò oltre l’indole scellerata e corrotta degli uomini, e decise di andare a dimorare fra le stelle, l’unico posto dove avrebbe potuto conservare la sua purezza. E la vergine né è per definizione l’emblema.

Altre fonti hanno visto nella costellazione la Fortuna, oppure Erigone, figlia di Icario, o ancora Parthénos, figlia di Apollo e Crisotemi.

Se osserviamo però le cosiddette uranografie, dal greco ouranos, cielo, e graphè, segno, ossia le mappe celesti raffiguranti la disposizione delle stelle accompagnata dalle figure mitiche che le rivestono, vediamo quasi sempre un’altra donna personificare la Vergine.

L’uranografia di Joannis Hevelius (Fig. 10) risalente al 1690 ne è un esempio, ma molti altri cartografi del firmamento hanno riprodotto lo stesso ritratto.

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Partendo da alcune delle tavole più antiche, possiamo vedere così la costellazione della Vergine ispirata al Poeticon Astronomicon di Hygino, il bibliotecario di Augusto, (Fig. 11), o ai Phaenomena del poeta greco Arato di Soli (Fig. 12), entrambe pubblicate nel 1570; e ancora nelle rappresentazioni degli astronomi Iohann Bayer del 1603 (Fig. 13), John Flamsteed del 1753 (Fig. 14), Johann Bode del 1801 (Fig. 15) o Alexander Jamieson del 1822 (Fig. 16).

L’attributo comune a tutte le rappresentazioni è la presenza di un bel fascio di spighe di grano che la donna stringe nella mano destra – o sinistra nel caso di Hevelius e Arato, dove la figura è di spalle a significare che l’osservatore è stato immaginato al di fuori della sfera celeste – fascio sul quale non a caso è stata appuntata la stella Spiga. Quella donna è Demetra, una dea dunque, la dea delle messi, alla quale erano legate le sorti del raccolto, fonte primaria del sostentamento dell’uomo. E’ proprio di Demetra, Cerere per i Romani, che narreremo questo mese volgendoci alla costellazione della Vergine.

Presso gli Antichi Greci, Demetra era una delle divinità più onorate – talvolta seconda solo all’onnipotente Zeus – nonché rispettate per via del potere assoluto che deteneva sulla campagna, elemento fondante della sussistenza dell’uomo.

Il poeta Esiodo, vissuto nell’VIII secolo a.C., raccomanda a suo fratello Perse, che trascorre la vita oziando, di dedicarsi invece ai «lavori che gli dèi immortali hanno prescritto agli uomini», ed in particolare di osservare così la legge dei campi:

 

semina nudo, nudo ara e nudo mieti,se vuoi a suo tempo compiere tutti i lavori di Demetra affinché tutto cresca a suo tempo, né tu in seguito, indigente debba mendicare per le case altrui senza nulla ottenere (Esiodo, Le Opere e i Giorni, 391-395)

Tanto che la spiga di Demetra è considerata sacra:

 

Prega Zeus Ctonio e la veneranda Demetra affinché,non appena matura, sia grave la sacra spiga di Demetra (Esiodo, Le Opere e i Giorni, 465-466)

Si è facilmente portati a immaginare che il buon esito di una semina fosse il riconoscimento della dea per gli sforzi compiuti dal contadino, e che al contrario una infruttuosa annata fosse dovuta ad una o più mancanze del coltivatore in termini di appropriata dedizione al lavoro dei campi, o di onori magari non degnamente riservati alla divinità. Sicuramente era così, ma a tutto ciò un motivo ben circoscritto e su cui tutti i Greci erano stati istruiti, legava in modo unico a Demetra questi uomini dediti alla terra. E la ragione consisteva in una dolorosa vicenda che aveva coinvolto personalmente la dea e che cambiò per sempre il suo animo: si trattava del rapimento della figlia Persèfone, Proserpina per i Romani, da parte di Ade, il signore dell’oltretomba.

Da questo avvenimento e soprattutto dal successivo decorso, la dea stessa istituì i cosiddetti Sacri Misteri (in greco ièron òrghia), più conosciuti come Misteri Eleusini.Ripercorriamo allora, attraverso la storia di Demetra e Persefone, le Demetriache, un’antichissima cerimonia religiosa con lo scopo di assicurare la fecondità della terra alla vigilia della sua preparazione.

La testimonianza che più ampiamente descrive il mito di madre e figlia, proviene dal secondo Inno Omerico, uno dei 33 componimenti poetico-religiosi che ci sono pervenuti e che fungevano da canti di avviamento (in greco prooimia, ossia proemi) alle competizioni rapsodiche che si celebravano nell’ambito di feste religiose.

L’Inno a Demetra, composto probabilmente nel VI secolo a.C., consiste di 495 versi e veniva eseguito proprio durante i Misteri Eleusini. E’ una preghiera cantata. E molti passi sono singoli momenti del rituale.

Non posso tacere che con il mito di Demetra e Persefone, abbiamo a che fare con una storia carica di simboli, e anche di parole greche che ci fanno scoprire il significato originariamente sacro di vocaboli moderni talvolta associati ad azioni turpi.

Si pensi per esempio alla versione greca ièron òrghia tradotta con sacri misteri: i misteri erano orghià, per noi orge, una parola che oggi indica eccesso, ammucchiata, azioni scandalose, ma che in origine consisteva in un rituale sì carnale, come vedremo, ma sacro. Nulla vi era di perverso in quei gesti. L’accezione negativa moderna è dovuta al fatto che essi furono ripetuti quando ormai l’Antica Grecia era tramontata, la religione invalidata e, di conseguenza, quei gesti furono ripetuti da persone qualsiasi in contesti completamente estranei e svincolati da quello religioso in cui erano sorti. Ed ovviamente non potevano che essere deplorevoli e peccaminosi.

Bisogna sapere che nel mese di boedromione, grossomodo settembre-ottobre nel nostro calendario, gli abitanti dell’Attica compivano una lunga processione che li portava da Atene ad Eleusi, un piccolo borgo dal quale era possibile vedere l’isola di Salamina, e distante circa venti chilometri da Atene.

Guidati dal sacerdote-capo di Demetra, lo ierofante, dovevano riportare nel tempio di Eleusi i cosiddetti sacri oggetti (tà ierá), che il 14 dello stesso mese erano stati trasferiti nell’Eleusinion di Atene.

Insieme alla popolazione, svolgevano un ruolo fondamentale i cosiddetti mystai, i misti, ossia gli aspiranti all’iniziazione, davanti ai quali lo ierofante mostrava i sacri oggetti e svolgeva con loro i sacri riti, riti attorno ai quali Demetra si raccomandò di serbare l’assoluto silenzio, pena il reato di empietà.

Ed infatti nemmeno noi oggi sappiamo con certezza in cosa consistevano. Le nostre sono solo supposizioni, probabilmente verosimili, ma nessuno degli Antichi Greci ha osato lasciare una testimonianza scritta che descriva cosa si faceva nel Telesterion, la cella del santuario dove venivano custoditi e riportati gli oggetti. Ed ecco un’altra parola antica che ci guida all’apprendimento di una moderna: mistero.

Un mistero è un segreto, o un enigma, o un dogma o ancora una cosa incomprensibile: tutti attributi che dobbiamo ricondurre a quegli antichi uomini chiamati mystai, gli iniziati, che assolutamente non dovevano riferire ad alcuno l’esperienza spirituale, mystica, a cui avevano preso parte. Doveva restare un segreto, un mistero, una conoscenza cioè dei misti.

Tutto ebbe inizio quando Persefone stava raccogliendo fiori nella pianura di Nisa, località ritenuta ai confini del mondo. E proprio con la raccolta dei fiori avremmo visto iniziare le Celebrazioni Demetriache e udito la voce del cantore che accompagnava i fedeli con la sua lira…

 

Comincio a cantare Demetra dai bei capelli, dea venerabile, e la sua figliola dalle caviglie sottili, che Adoneo rapì – glielo concesse Zeus onniveggente, signore del tuono, ingannando Demetra dalla spada d’oro, dea delle splendide messi – mentre giocava insieme alle floride figlie di Oceano e coglieva fiori (le rose e il croco e le belle viole) su un morbido prato. Coglieva le iris e il giacinto, e anche il narciso – insidia per la tenera fanciulla – che la Terra generò su richiesta di Zeus, per compiacere il signore infernale: straordinario fiore splendente, prodigiosa visione per tutti quel giorno, sia per gli dèi immortali che per gli uomini mortali. (Inno a Demetra, 1-11)

Il narciso fu per la fanciulla la trappola infernale. A pensarci bene forse ci si poteva insospettire che proprio quel fiore fosse stato partorito dalla terra superiore a tutti gli altri in quanto a magnificenza; che fosse stato per così dire, abbellito appositamente per attrarre. Il narciso infatti ha la sua etimologia nella parola greca nàrke, letteralmente torpore, ed è associabile quindi al sonno e da ultimo alla morte. I narcotici alludono proprio all’effetto sonnifero che procurano. Cogliere il narciso significava quindi entrare in contatto con la dimensione dove la vita è assente, non c’è più, in altre parole col regno dei morti.

Ed infatti, non appena Persefone strappa il fiore,

 

[…] l’ampia terra si aprì nella pianura di Nisa, e ne uscì con i suoi cavalli immortali il signore che ha molti nomi e molti sudditi, figlio di Crono.(Inno a Demetra, 16-18)

Quel signore è Ade, tradotto nel proemio con Aidoneo, dal greco Aidoneus.

Il giorno in cui insieme ai suoi fratelli Zeus e Poseidone, si spartirono i tre regni esistenti, egli aveva ricevuto in sorte quello di cui tutti gli dèi avevano avversione: Zeus si scelse il cielo, a Poseidone toccarono le acque, mentre ad Aidoneo restò il mondo sotterraneo dei morti. E se c’è una cosa che accomuna tutti gli dèi sia nel bene che nel male, è proprio la vitalità, il richiamo alla vita! La vita appassionata ha sempre corso in loro e Aidoneo, relegato negli abissi della terra con esseri ridotti a eterei spiriti, non avrebbe potuto sopportare per l’eternità l’assenza della vita. Anzi, a pensarci, il suo desiderio di toccare di nuovo la vita era divenuto così importante da desiderare colei che più di tutte la possedeva: la figlia di Demetra, la figlia primogenita della Signora della Fertilità, colei che assicurava proprio il perpetuarsi della vita!

E allora si rivolse a quel suo fratello che tanto tempo prima gli aveva destinato l’infelice luogo, e gli chiese di poter avere Persefone in sposa. Zeus dopotutto come avrebbe potuto rifiutarglielo? Persefone colse il narciso, si contaminò di morte, la terra si aprì in una voragine e fagocitò la fanciulla tenuta stretta da Ade possente, per poi richiudersi rubando così in pochi istanti, la Vita. La ragazza emise un grido straziante, lunghissimo e acuto; un grido però che solo Zeus, Ecate, il Sole e Demetra udirono. La dea si precipitò alla ricerca della figlia, ma invano.

 

Per nove giorni allora l’augusta Demetra vagò sulla terra, stringendo in mano fiaccole ardenti: chiusa nel suo dolore, non si nutriva né di ambrosia né di dolce nettare, né immergeva le membra nell’acqua. (Inno a Demetra, 47-50)

E questo è quanto facevano dal 15 al 18 di boedromione i mystai ad Atene nelle acque del Pireo: gli iniziati provvedevano alla purificazione di sé stessi attraverso il digiuno e le abluzioni rituali. Una processione collettiva partiva poi il 19 del mese lungo la Via Sacra che da Atene conduce ad Eleusi, e tutti, iniziati e non, stringevano una fiaccola accesa ad evocazione dei nove giorni in cui Demetra, raminga, cercava la figlia. Finalmente il decimo giorno, Ecate venne in aiuto della dea e la condusse da Elios, il Sole, il dio che per sua natura tutto vede.

Appresa la verità, sdegnata, ferita nell’intimo, Demetra abbandonò l’Olimpo e gli altri dèi, e decise di scendere sulla terra abitata dagli uomini, nel villaggio di Eleusi, assumendo le sembianze di una vecchia. Era il suo modo per dire che la sottrazione – ingiusta – della figlia equivaleva a privarla della giovinezza, della fertilità, dell’abbondanza.

 

Afflitta nel cuore, sedeva lungo la strada, all’ombra, presso il pozzo Partenio, cui attingeva acqua la gente. (Inno a Demetra, 99-100)

Furono le figlie del principe di Eleusi che, col consenso dei genitori, ospitarono l’anziana donna in qualità di nutrice dell’ultimo nato della famiglia, Demofonte:

 

(…) un figlio maschio amatissimo, nato tardi, dopo lunga attesa e speranza. (Inno a Demetra, 164-165)

Con Demofonte ecco ritornare il binomio fertilità-sterilità; egli era nato quando si pensava che la madre Metanira fosse sterile, pertanto la sua nascita era una smentita a questo, nonché un trionfo della vita. Fin dal momento in cui Demetra varcò la soglia della dimora del principe, i presenti capirono subito che quella donna non era come le altre: la sua statura era più alta – così come si credeva fossero gli dèi rispetto agli uomini – e una luce divina inondò improvvisamente la casa.

La regina piena di stupore quanto le figlie e le ancelle, invitò Demetra a sedersi sul trono e a bere una coppa di vino mielato, ma la dea, triste in volto e silenziosa, rifiutò.

Ha inizio da questo momento della storia una serie di elementi fondanti il rituale eleusino: l’angoscia e l’astensione della dea dal cibo e dalle bevande veniva commemorata con la purificazione e il digiuno preliminari. Fu una delle serve che ruppe il ghiaccio e strappò un sorriso alla dea:

 

Finché l’accorta Iambe, con scherzi e con molti motteggi, indusse la dea veneranda a sorridere, a ridere e a rasserenare il suo animo (Iambe che anche poi fu sempre cara al suo cuore). (Inno a Demetra, 202-205)


Gli scherzi e i motteggi di Iambe venivano riprodotti dai fedeli in processione attraverso atti osceni ed esclamazioni scurrili, in corrispondenza di alcune delle stazioni rituali, le quali prevedevano una sosta ed erano contrassegnate da tempietti disposti ai lati della Via Sacra.

L’unica bevanda che Demetra chiese di bere fu il ciceone, prima di allora sconosciuto agli uomini. Si trattava di una miscela di acqua, farina e menta che gli adepti bevevano dopo aver riposto i sacri oggetti nella cella del santuario. Era ormai sera quando i fedeli e i sacerdoti arrivavano ad Eleusi; i mystai e lo ierofante entravano nel Telesterion, accessibile solo a loro, e si preparavano alla celebrazione dei misteri veri e propri. Perché nel cuore della notte, Demetra compiva un rito segreto e inquietante…

 

Così la dea allevava nel palazzo lo splendido figlio di Celeo, Demofonte, che Metanira dall’alta cintura aveva generato: e il bimbo cresceva simile a un dio, senza nutrirsi di cibo né suggere latte materno Demetra lo ungeva d’ambrosia quasi fosse il figlio di un dio, leggermente alitandogli sopra e stringendolo al seno. Di notte lo avvolgeva nella vampa di fuoco, come un tizzone, all’insaputa dei genitori: per loro era un grande stupore come cresceva precoce e assomigliava agli dèi.(Inno a Demetra, 233-241)

Il fuoco aveva una funzione salvifica, purificava e rigenerava. Di più: l’esposizione di Demofonte alla fiamma serviva a conferirgli l’immortalità.

Pare che i sacerdoti evocassero questo momento facendo scivolare sul proprio corpo riproduzioni plastiche dell’organo femminile; in questo modo erano simbolicamente rigenerati dalla grande madre Demetra e donati a nuova vita. Tutto questo accadeva la notte del 19 di boedromione.

Ma il destino di Demofonte si rivelò, come in un avverso gioco, lo stesso di Persefone. Accadde infatti che Metanira volle spiare la nutrice, profanando così il rito che Demetra stava compiendo. Alla vista del figlio immerso nel fuoco, gridò terrorizzata e la purificazione si interruppe.

 

irata con lei, Demetra dalla bella corona con le mani immortali allontanò da sé il bimbo, che la donna aveva generato – inatteso – nel palazzo, e a terra lo depose lontano dal fuoco, furibonda nel cuore; (Inno a Demetra, 251-254)

Come Persefone era stata sottratta alla luce del sole e aveva fatto il suo ingresso nelle viscere della terra, così Demofonte era stato strappato al fuoco salvifico e, con la sua deposizione lontano da esso, era stato affidato alla terra. Fu in questo momento che Demetra si rivelò a Metanira:

 

O mortali sciocchi e insensati, incapaci di prevedere il destino, buono e cattivo! Anche tu per la tua sventatezza gravemente hai sbagliato. Giuro infatti – giuramento divino! – sullo Stige spietato che avrei reso tuo figlio immortale ed eternamente giovane e gli avrei concesso un onore infinito; ora invece non potrà sfuggire alla morte e al fato. (Inno a Demetra, 257-262)

Demetra ordinò agli Eleusini di costruire per lei un grande tempio dove lei stessa avrebbe insegnato loro i riti,

 

(…) perché poi, celebrandoli in modo pio, plachiate il mio cuore”. Così dicendo, la dea cambiò statura ed aspetto, scacciando la vecchiaia: bellezza le aleggiava intorno, unamabile fragranza si diffondeva dal peplo odoroso, e dal suo corpo immortale la luce si irradiava lontano; i biondi capelli le coprivano le spalle, e la solida casa si riempì come della vampa d’un lampo. (Inno a Demetra, 273-280)

Ecco Demetra! Eccola nel suo naturale splendore, quello che mai avrebbe dovuto perdere, perché se perduto, la vita degli uomini sarebbe divenuta tormentata dalla fame. Proprio questo accadde allorché la dea prese dimora nel suo tempio, addolorata per la nostalgia della figlia.

 

Sopra la terra feconda essa rese terribile e odiosoquell’anno per gli uomini, perché nei campi i semi non germogliavano: li nascondeva Demetra dalla bella corona. Molti aratri ricurvi i buoi tiravano invano nei campi, molto bianco orzo cadde vanamente nella terra. E avrebbe distrutto la stirpe degli uomini con la fame spietata, e avrebbe sottratto ai signori dell’Olimpo l’onore glorioso delle offerte e dei sacrifici, se Zeus non ci avesse pensato, meditando nel suo cuore. (Inno a Demetra, 305-313)

Zeus… come avrebbe potuto vivere senza gli esseri umani, i mortali, che dalla loro condizione sfavorita lo riempivano di lodi? E come lui la pensavano gli altri dèi. L’Olimpo si sarebbe trasformato in un noioso viavai di pari senza che mai una fine li attendesse.

Ordinò dunque al fratello Ade di restituire Persefone, e Ade acconsentì, stranamente senza opporre resistenza. Perché Ade, astuto, aveva già meditato un inganno, un piano che avrebbe legato per sempre a sé Persefone: prima di affidarla ad Ermes, il messaggero inviato da Zeus a prelevarla, la costrinse a mangiare un chicco di melograno, frutto dai molteplici significati.

Innanzitutto chi mangia il cibo dei morti deve rimanere con loro per sempre: anche se si tratta di un solo chicco, Persefone si vincola irrevocabilmente al mondo ultraterreno. Nell’antichità poi, la mela e il melograno erano ritenuti frutti afrodisiaci: mangiandone, la fanciulla pronunciò simbolicamente il suo sì ad Aidoneo.

Per la moltitudine dei suoi semi infine, il melograno rappresentava la fecondità; ecco allora che cibandosi di quel chicco, Persefone si preparava a divenire madre, a divenire Demetra lei stessa! Non a caso infatti ad Atene, esse erano le due dee per eccellenza e talvolta la loro identità si fondeva, poiché alla scomparsa della figlia, anche Demetra “moriva”, così che l’una era il doppio dell’altra. Dalla fatale compromissione di Persefone col regno degli inferi, Zeus…

 

Stabilì che sua figlia, anno dopo anno, per un terzo del tempo stesse dentro la densa tenebra e per due terzi accanto alla madre e agli altri immortali. (Inno a Demetra, 445-447)

La morte e la risurrezione di Persefone avvenivano infatti in corrispondenza dell’arresto e del risveglio della natura. Con le parole che le rivolse Demetra:

 

Non appena la terra a primavera si coprirà di fioriprofumati e variopinti, dalla tenebra densa subito risalirai, grande prodigio per gli dèi e per gli uomini mortali. (Inno a Demetra, 401-403)

Il ritorno di Persefone ed il suo ricongiungimento con la madre, predispose la dea nuovamente alla fecondità dei campi,

 

e subito fece spuntare il frutto dalle campagne feconde,e tutta l’ampia terra si ricoprì di foglie e di fiori. Ed essa andò dai re che danno sentenzeTrittolemo e Diocle agitatore di cavalli, il possente Eumolpo e Celeo, condottiero di eserciti – e mostrò loro l’esecuzione dei riti e rivelò a tuttia Trittolemo, a Polissero e inoltre a Diocle – i sacri misteri, che non è consentito profanare né indagare né rivelare, poiché la reverenza per gli dèi frena la voce. (Inno a Demetra, 471-479)

I principi di Eleusi furono dunque i primi depositari dei Sacri Misteri. E con la resurrezione di Persefone, si giungeva al momento culminante delle Demetriache.

Nella notte fra il 21 e il 22 i devoti si riunivano in una veglia di preghiera, ed una rappresentazione sacra ricordava il rapimento della figlia della dea. Al termine, lo ierofante usciva dal Telesterion illuminato da una grande fiamma e pronunciava il ritorno della fanciulla dal mondo infero proclamando:

La dea ha generato un figlio divino: Brimò ha generato Brimòs!

Brimòs indicava il figlio maschio, ossia Demofonte, mentre Brimò era il nome al femminile per indicare la figlia femmina, in questo caso Persefone. Ecco allora chi era il frutto della gravidanza in cui si trovò Persefone dopo aver mangiato il chicco di melograno!

Generato da Persefone, Demofonte è ora immortale, è stato portato a termine il rito interrotto e la sua nascita da Persefone simboleggia la rigenerazione della natura. Ma la salvezza proveniente dalle due dee non si fermava al solo ambito materiale. I Misteri Eleusini assicuravano agli iniziati la beatitudine dopo la morte, indipendentemente dalla condotta tenuta in vita. Le Demetriache erano insomma un’autentica esaltazione della vita e se fossimo vissuti allora e fossimo stati insieme a quei fedeli, avremmo udito il cantore chiudere così quei dieci giorni dedicati alle dee:

 

Voi, dee che regnate sulla terra di Eleusi odorosa e su Paro marina e su Androne petrosa: tu, Demetra, augusta dea, signora delle messi, ricca di doni, e tu, bellissima Persefone, sua figlia, premiate benigne il mio canto con l’amabile prosperità. E io canterò te, e anche un’altra canzone. (Inno a Demetra, 490-495)

Come rendere degnamente una storia così struggente nonché densa di quelle entità rivali che sono alla base dell’esperienza umana: la vita e la morte, la fame e l’abbondanza, la sterilità e la fertilità? Fortunatamente l’arte ha avuto sapienti maestri.

Ciò che è stato maggiormente sentito della vicenda è stato il momento del rapimento della ragazza, un momento caratterizzato dalle emozioni spinte all’estremo, territorio prediletto dell’arte. In questa rassegna non vedremo mai Demetra, ma la coppia infernale formata da Ade e Persefone.

Sicuramente il ritratto più pacato degli sposi è stato fatto dai Greci, i quali non amavano esaltare nei disegni la violenza o la passione; prediligevano la misura, il controllo emotivo, anche quando ritraevano scene cruente. Ecco allora nella bella coppa a figure rosse proveniente da Vulci (Fig. 17), Ade disteso sul letto che invita la sua sposa a bere dalla kylix che le sta porgendo. Lei è seduta e, dalla direzione dello sguardo si capisce che ignora volontariamente l’offerta, esprimendo così un rifiuto ben più esteso.

La tensione di entrambe è tutta interiore, come richiedeva appunto l’ideale greco della misura, tuttavia i sentimenti che provavano i protagonisti non erano sconosciuti, poiché la conoscenza collettiva dei miti suppliva alla carenza di enfasi della scena.

Questa coppa è stata decorata dal cosiddetto “Pittore di Kodros” nel 450-425 a.C. e si trova al British Museum di Londra.

Fra i moderni, primo fra tutti cito Gian Lorenzo Bernini. Nella Galleria Borghese a Roma, è custodita una scultura capolavoro: “Il Ratto di Proserpina” (Fig. 18), eseguita in due anni, dal 1621 al 1622, in marmo bianco.

In questo blocco di due metri e mezzo, vediamo Ade afferrare energicamente Proserpina sollevandola da terra. La fanciulla è visibilmente sconvolta e tenta invano di sfuggire alla presa così salda. Ai piedi di Ade, abbaia Cerbero, il cane a tre teste sentinella degl’ingressi maledetti.

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l dinamismo e l’energia del momento sono resi con sorprendente virtuosismo attraverso la scelta dell’artista di movimentare il gruppo con una torsione elicoidale dal basso verso l’alto. Ma si tratta anche di un’opera in cui la materia utilizzata, il duro marmo, si lascia plasmare nelle mani dello scultore, letteralmente come fosse burro!

Osservate le dita di Ade che affondano nella morbidezza del corpo di Proserpina (Fig. 19). Sembra davvero carne immacolata.Non c’è muscolo, nervo, lacrima o espressione che siano stati tralasciati. Perfino al vento è stato concesso di scompigliare i capelli di marmo!

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La stessa scena viene riproposta nella pittura, per esempio nel forse poco conosciuto dipinto di Leonello Spada, pittore bolognese del ‘600, noto come uno dei seguaci di Caravaggio (Fig. 20).

La forza di Ade e la delicatezza di Proserpina sono sottolineate dalla muscolatura marcata del primo e dal candore della pelle della fanciulla. Il dipinto è immerso in uno sfondo completamente buio, a malapena si distingue il tridente di Ade, un altro attributo del dio. Ade emerge dalla terra insieme alle tenebre da cui proviene, e il contrasto fra i due regni, terreno e ultraterreno, è estremizzato dalla bianchissima e delicatissima Proserpina, che anche qui come nella scultura del Bernini, protende disperata le braccia al cielo invocando l’aiuto degli dèi.

Questo quadro si trova a Modena e appartiene ad una collezione privata.

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Come non ammirare infine il celebre dipinto del poeta e pittore inglese Dante Gabriel Rossetti (Fig. 21)? Si trova nella Tate Gallery di Londra. Rossetti lo eseguì nel 1874 dopo la scomparsa della moglie. Si intitola “Proserpina” perché in questa figura vide la metafora dell’esperienza dolorosa che aveva appena vissuto: si sentì come Demetra a cui era stata rubata la figlia dal signore dei morti, e volle dare a Proserpina proprio il volto della sua amata.

La donna ha uno sguardo serio ma spento. Non vi è sorriso sulle labbra rosse e sensuali. D’altra parte come si può osservare, ha appena morso l’attraente melograno che tiene nella mano sinistra, mentre la destra ne afferra senza energia il polso, come per allontanare il frutto fatale dalla bocca della dea, ma sapendo che ormai è troppo tardi.

Un incensiere posto di fronte a lei indica che la figura rappresentata è una divinità.

Da notare poi l’ondulazione che percorre il quadro, conferendogli grazia e femminilità: le pieghe della veste delineano il profilo delicato di Proserpina, il quale prosegue nella curva del collo e termina nel tralcio d’edera che pare inchinarsi alla dea.

In alto a destra, Rossetti ha dipinto un sonetto scritto da lui in italiano per Proserpina.

Sul bordo del tavolo dove è posto l’incensiere, è invece affissa una striscia di pergamena con la firma del pittore: “Dante Gabriele Rossetti ritrasse nel capodanno del 1877”.

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Bootes

Bootes è una parola greca che significa bovaro. Egli sarebbe colui che guida i sette buoi rappresentati dalle stelle del Grande Carro. Ma la costellazione era nota nell’antichità anche col nome di Artofilace, unione delle parole greche arktòs che significa orso e phylax che significa guardiano. Dunque il Bootes è anche il guardiano dell’orso, o meglio dell’orsa dato che si trova alle spalle della costellazione della Grande Orsa. La tavola dedicata a Bootes dall’astronomo Johannes Hevelius mostra un uomo che tiene al guinzaglio due cani – Chara e Asterion rappresentanti la costellazione dei Cani da Caccia – lanciati all’inseguimento dell’orsa (Fig. 19). Siamo nel tanto celebrato mito di Giove e Callisto, attorno al quale ruotano ben quattro costellazioni: l’Orsa Maggiore, l’Orsa Minore, Bootes e i Cani da Caccia. Callisto era una giovane e bellissima cacciatrice dell’Arcadia al seguito di Artemide, dea che ammetteva nel suo corteo solo donne dal grande talento venatorio e vergini. Callisto era la prediletta della dea, ma un giorno cadde vittima di un inganno di Zeus che, volendola per sé, le si avvicinò assumendo le sembianze di Artemide. Mentre le parlava, perse il controllo e la strinse a sé svelando così la sua identità. Invano Callisto cerò di divincolarsi, divenendo ormai possesso di Zeus. Da quella unione un giorno ella avrebbe partorito un figlio di nome Arcade, in onore della regione greca di origine. Naturalmente per una seguace di Artemide perdere la verginità significava oltraggiare la dea e oltretutto la gravidanza di Callisto avrebbe costituito la prova del tradimento al trascorrere dei mesi col ventre che si ingrossava. Tuttavia la fanciulla riuscì a nascondere il suo stato fin quasi al termine dei nove mesi.

Le sarebbe bastato partorire di nascosto e abbandonare il piccolo per evitare di essere scoperta, e ci sarebbe anche riuscita se non fosse che un giorno Artemide, giunta ad una fonte dall’acqua particolarmente limpida, propose alle giovani di riposarsi con un bagno. Inutilmente Callisto si rifiutò, tanto che le compagne si presero la briga di spogliarla e così facendo svelarono lo scandalo. Artemide inorridita non esitò a cacciarla dal gruppo e Callisto piangendo fuggì nel bosco. Ma il suo tormento non era ancora finito: dalle nubi dell’Olimpo Era, la consorte di Zeus, attendeva l’occasione per vendicarsi del tradimento subito e decise di scagliarsi su Callisto proprio nel momento di maggiore umiliazione. Volle darle una punizione esemplare e così, dopo che ebbe partorito, da cacciatrice Era la rese preda e la trasformò in una gigantesca orsa. Per quindici anni Callisto sotto mentite spoglie vagò per i monti dell’Arcadia, terrorizzata dai lupi e dalla possibilità che gli uomini potessero colpirla. Finché venne il giorno in cui si imbatté in un ragazzo. Era Arcade, suo figlio, divenuto un abilissimo cacciatore. L’incontro colse entrambi di sorpresa, ma mentre Callisto riconobbe suo figlio, quest’ultimo invece non poteva sapere chi si celava dietro quell’orsa spaventata. In un batter d’occhio il ragazzo caricò l’arco con una freccia e avrebbe trafitto la madre se Zeus non fosse intervenuto in tempo fermandoli in quella posa e trasformandoli in costellazioni.

Ovidio nelle sue Metamorfosi racconta l’episodio con l’inconfondibile poesia che lo caratterizza:

[Arcade] inseguiva la selvaggina, sceglieva gli anfratti più adattie stendeva reti flessibili attorno alle selve dell’Erimanto, quando a un tratto s’imbatté nella madre. Essa trasalì e si arrestò, come lo vide, e parve proprio che lo riconoscesse.Lui arretrò, spaventato – perché non sapeva – da quegli occhi che immobili lo fissavano senza fine, e quando essa accennò ad avvicinarglisi, si preparava a trapassarle il petto con un dardo micidiale. L’Onnipotente lo impedì: li bloccò entrambi, e insieme bloccò il delitto, e sollevatili in aria con un vento veloce li collocò nel cielo facendone due costellazioni vicine. (Ovidio, Metamorfosi, II, 498-508)

Callisto divenne l’Orsa Maggiore, mentre Arcade fu Artofilace, ossia il suo guardiano. E a ricordarci che egli è il custode dell’orsa, c’è la luce intensa della stella Arturo il cui nome deriva dal greco arktòs che significa orso e ouròs che significa appunto guardiano.


Chioma di Berenice

In mezzo alle possenti figure del Leone e di Bootes, ondeggiano appena accennati i capelli di una regina che per amore del suo sposo, se li recise e li sacrificò agli dèi (Fig. 19). La regina si chiamava Berenice e a differenza degli altri personaggi tracciati fra le stelle, è realmente esistita. Berenice è l’unica identità storica ad avere una costellazione dedicata. Seppur sporadicamente, qualche altro protagonista della storia si trova in realtà commemorato nel firmamento, ma bisogna cercarlo in singole stelle, non tra le costellazioni. Berenice invece ha avuto un privilegio ancora più raro, quello non solo di trovarsi fra le stelle, ma addirittura accanto ai personaggi del mito greco che animano le costellazioni dell’antico cielo boreale. Berenice visse nel III secolo a.C. ed era la figlia del re di Cirene, città situata nell’odierna Libia. Andò in sposa al re dell’Egitto, paese che dopo la morte di Alessandro Magno, era governato dalla dinastia dei Tolomei. Il faraone che regnò dal 246 al 222 a.C. era Tolomeo III, detto Evergete che in greco significa benefattore e che era anche il fratello di Berenice. Uno dei meriti di Tolomeo, fu quello di ampliare la Biblioteca di Alessandria – che al tempo conteneva ben cinquecentomila rotoli di papiri – con altre cinquantamila opere letterarie che depositò nel vicino tempio di Serapide. Ma un giorno Tolomeo dovette partire per combattere. L’avversario era Seleuco II, signore della Siria, salito al trono nello stesso anno di Tolomeo. Berenice aveva paura di questa guerra, la terza nelle steppe siriane, e non voleva perdere il suo sposo. Probabilmente cercò di dissuadere il marito dall’impresa ma, si sa, nell’antichità – e anche oggi seppur con modalità diverse – la missione di ogni sovrano era cercare di estendere il proprio regno quanto più possibile, vuoi per sete di potere, vuoi per evitare di essere sottomesso da altri potenti. Venne così l’alba in cui Tolomeo partì per quella terra lontana. La regina, come una Penelope egiziana in attesa del suo Ulisse, stava in pena, i giorni parevano non passare mai, l’attesa la sfiniva. Così dopo aver molto pensato a come assicurarsi il ritorno dello sposo decise che, se avesse riabbracciato Tolomeo sano e salvo, avrebbe offerto agli dèi la sua chioma.

Per Giove, quanto spesso con la mano sfregasti gli occhi! Qual è il grande dio che ti mutò? E gli amanti perché mai non vogliono restare separati dal corpo dell’amato? E allora agli dèi tutti mi promettesti per il dolce sposoed il sangue di toro non mancava – se ottenesse il ritorno. (Catullo, Carmi, LXVI, 30-35)

Il faraone vinse Seleuco e la sua vittoria non fu limitata alla Siria ma a tutto il regno seleucide: conquistò le città greche dell’Asia Minore – l’odierna Turchia – e spinse il suo esercito fino alla Battriana, oggi corrispondente all’Afghanistan. La notizia dei successi del re giunse in patria e Berenice, sollevata e grata agli dèi, si recò al tempio di Afrodite: là si accostò all’altare e chinata la testa, tagliò i lunghi riccioli color dell’ebano.

Regina, a malincuore dal tuo capo, a malincuore, mi staccai. Lo giuro su te e sul capo tuo. (Catullo, Carmi, LXVI, 39-40)

Con il capo rasato ma senza aver sminuito la sua bellezza, la regina attese pazientemente Tolomeo finché un giorno, quando il sole si congiungeva alla linea dell’orizzonte lasciando il cielo cosparso di riflessi rosati, vide avanzare in lontananza un grande esercito: davanti, scortato da sei cavalieri, un guerriero dall’armatura lucente lo conduceva, il volto protetto da un elmo sormontato da un elegante pennacchio rosso; vittorioso era il passo del cavallo che montava. Berenice conosceva bene quel pennacchio e senza attendere oltre, corse incontro al cavaliere. Quando Tolomeo riconobbe Berenice, scese da cavallo e l’accolse tra le sue braccia. Berenice poi guardò il suo sposo che non vedeva da cinque lunghissimi anni: vide il guerriero nelle ferite che si erano impresse sulle braccia, sul collo e sul volto, quel volto provato di chi ha visto troppi uomini morire; ma poi riconobbe in quegli occhi scuri anche lo sguardo fermo e audace del re dell’Egitto, che adesso era anche signore della Siria, della Mesopotamia, della Babilonia e della Susiana, della Persia, della Media e della Battriana. Tolomeo a sua volta guardò la sua sposa, contemplandone a lungo la bellezza. Si stupì solo del velo che nascondeva i capelli bellissimi, ma non domandò nulla desiderando soltanto rientrare a casa. Quando finalmente furono soli, Berenice sollevò il velo dalla fronte e lo lasciò cadere, mostrando il capo ricoperto da corti capelli. Tolomeo non credette ai suoi occhi. “Che hai fatto?”, mormorò. “Ho fatto un voto”, rispose la regina. “Ad Artemide e agli dèi tutti. Se mi avessero concesso di rivederti vivo, li avrei ringraziati offrendo loro i miei capelli. Li puoi trovare al tempio, sull’altare”. Il re rimase ammutolito e riuscì soltanto a voltarsi per uscire e recarsi al tempio, forse nell’assurda speranza di poter restituire i capelli a quel viso che tanto amava. Ma quando giunse davanti all’altare, non trovò nemmeno un capello. “Cos’è questa storia?”, gridò spazientito a Berenice che gli era andata appresso. La regina rimase turbata ancor più del re e non seppe cosa dire. Se solo avesse prestato ascolto alla notte stellata, avrebbe udito una voce dalle preziose parole…

Mi piangevano, tagliata appena allora, le sorelle chiome e subito irrompeva, movendo a cerchio le veloci penne, un lieve vento, fratello dell’etiope Memnone, cavallo della locrese Arsinoe dalla cintura di viole… mi [rapì] in un soffio e portandomi nelle brume dell’aria mi depose nel seno di Cipride. (Callimaco, Chioma di Berenice, 51-56)

In quella notte densa di stelle, proprio vicino al tempio stava scrutando il firmamento l’astronomo di corte, Conone. Udita la disputa della coppia reale, si affrettò a raggiungere il faraone per placarne l’ira. “Mio signore”, disse inginocchiandosi davanti a Tolomeo. “In verità i capelli della sua regina sono spariti dal tempio il giorno dopo che ella se li recise. Ma io so dove sono…”. Detto questo si alzò in piedi e indicò il cielo. “A ovest di Bootes, sopra il Leone, vede quell’amabile luccichio? Eccoli, sono i capelli della sua signora. Gli dèi li hanno trasformati in stelle e da allora in cielo abbiamo una nuova costellazione: io l’ho chiamata Chioma di Berenice”.

Della Vergine e del fiero Leone tocco gli astri, nei pressi di Callisto Licaonia volgo al tramonto, dirigendo il corso dinanzi al lento Boote, che si immergenell’Oceano profondo, a stento tardi. (Catullo, Carmi, LXVI, 65-68)

Era il 245 a.C. quando l’astronomo Conone battezzò quella manciata di stelle dedicandola alla sua regina, e la costellazione godette di grande fama presso i poeti. La composizione più antica sul voto della regina egiziana, è quella di Callimaco, il più famoso dei poeti alessandrini, vissuto a cavallo fra il IV e il III secolo a.C. Come Berenice era nato a Cirene, mentre come Tolomeo III si dedicò alla Biblioteca di Alessandria, diventandone bibliotecario. Come Conone infine era al servizio proprio di Tolomeo III, così che i protagonisti della leggenda e il loro cantore erano tutti contemporanei e conoscenti. Callimaco compose l’elegia intitolata “Chioma di Berenice” al ritorno del re dalla guerra contro Seleuco, poco dopo le sue nozze con Berenice. Purtroppo il suo componimento ci è giunto solo in frammenti su un paio di papiri egizi, uno del I secolo a.C. e uno molto più tardo, del VI-VII secolo d.C. Ma fortunatamente ci fu nell’antichità chi poté apprendere per intero i 94 versi dell’elegia: era Catullo, che visse nella seconda metà del I secolo a.C. Catullo amò profondamente il componimento di Callimaco e volle tradurlo in latino. La sua traduzione è sopravvissuta e così possiamo gustarne anche noi la raffinatezza nonché conoscere la trama di questa storia salita agli astri. Anzi, pare proprio che Callimaco in realtà non abbia fatto altro che porgere l’orecchio verso la piccola costellazione e trascrivere un lontano sussurro che soltanto un poeta può udire.

Chi scrutò dell’immenso firmamento tutte le luci e apprese delle stelle albe e tramonti e come il fiammeggiante lume del sole rapido si oscuri e in tempi fissi le costellazioni vengano meno e come il dolce Amore tra le rocce del Latmo di nascosto spinga lontano Trivia, dirottandola dal suo giro nell’aria, quel Conone nel chiarore celeste vide me, una ciocca recisa dalla chioma di Berenice, fulgida splendente, che, tendendo le braccia levigate, ella promise a molte dee, nel tempo in cui, accresciuto dalle nuove nozze, il re si era recato a devastare le terre degli Assiri. (Catullo, Carmi, LXVI, 1-12)

Trivia è Selene, la Luna che, innamorata del pastore Endimione, si allontanava dal cielo per incontrarlo sul monte Latmo, in Caria, entrando così nella fase di luna nuova, quella in cui diviene invisibile. Le terre degli Assiri erano invece quelle di Seleuco. La chioma tramutata in stelle prosegue il racconto ricordando di come fu recisa e di come si unì agli altri astri. Tuttavia il privilegio di essere lassù non la rese né orgogliosa né felice. La Chioma di Berenice è infatti una costellazione malinconica, che volge le sue luci sempre verso la terra, là dove dimora colei che la recise.

Tu, regina, quando, guardando le costellazioni, nelle feste farai propizia Venere, non lasciare che resti io che son tua senza offerte di unguenti, ma piuttosto onorami con doni sontuosi. Magari rovinassero le stelle! Vorrei tornare chioma di regina: presso l’Acquario splenda pure Orione! (Catullo, Carmi, LXVI, 89-94)

 


Internet

  • en.wikipedia.org/wiki/Leonello_Spada
  • utenti.planetis.quipo.it/vicky/lspada
  • www.atlascoelestis.com
  • www.galleriaborghese.it
  • www.latinomedia.it/proserpina

Bibliografia:

  • DELI – Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, Seconda Edizione, Ed. Zanichelli, 1999
  • Dizionario di Mitologia greca e latina
  • Dizionario di mitologia greca e latina, Ed. UTET, 2002
  • Esiodo, Le Opere e i Giorni, Ed. BUR, 2006
  • Esiodo, Teogonia, Ed. BUR, 2004
  • Inni Omerici, Ed. BUR, 2000
  • La Pittura del Romanticismo, Ed. Taschen, 1999

 

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