Le costellazioni circumpolari nel mito e nell'arte

Orsa Maggiore

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L’Orsa Maggiore: ovvero la Grande Orsa e potremmo dire anche l’Orsa Madre. Proprio così, perché di una madre si tratta. Il suo nome è Callisto, in greco significa “la più bella” e la più bella non era un’orsa, ma una ninfa dell’Arcadia montuosa che si era votata ad Artemide, la dea della caccia. Chi voleva seguire Artemide doveva non solo possedere spiccate doti venatorie, ma anche essere e rimanere vergine, come la dea. Callisto era così ed era talmente virtuosa nell’arte della caccia da essere la prediletta della sorella di Apollo.

Quando una fibbia aveva fermato la sua veste e una bianca benda i capelli incolti, una volta preso in mano un giavellotto liscio, oppure un arco, era una perfetta soldatessa di Diana, e sul Menalo mai era capitata una più cara a Diana Trivia. (Ovidio, Metamorfosi, II, 412-416)

Un giorno, quando Apollo col suo carro infuocato aveva percorso ormai più di metà del tragitto celeste, Callisto si trovava in un bosco fino ad allora scampato alla mano dell’uomo; era un lussureggiare di foglie e aghi splendenti che si intrecciavano col bruno dei tronchi, ora lisci ora nodosi, e tutti dal legno pieno di vigore. Abeti, lecci, castagni, querce popolavano da secoli la montagna che da lontano si presentava abbigliata con un grande manto verde scuro. I fiori infine, ammorbidivano la ruvidità dei pendii con teneri petali mentre la freschezza dei loro colori si sposava qua e là con rocce argentate. Non è esagerato dire che quel bosco avrebbe potuto chiamarsi anch’esso Callisto, perché era come lei: bellissimo, ancora vergine. La ragazza vi era capitata alla fine di una giornata trascorsa a inseguire nuove prede ed era ormai desiderosa di riposarsi.

Qui depose dalla spalla la faretra, allentò l’arco flessibile, ed eccola sdraiata sul suolo ricoperto dall’erba, col capo poggiato sulla faretra colorata.(Ovidio, Metamorfosi, II, 419-421)

Nel bosco però capitò anche Zeus che, alla vista della giovane, non seppe resistere e come già con altre era accaduto, desiderò farla sua. Per non intimorirla o metterla sulla difensiva, astutamente le si avvicinò assumendo proprio le sembianze di Diana:

O vergine, mia cara compagna, su che cime sei stata a cacciare?”. La fanciulla balza su dalle verdi zolle e risponde: “Salute, o dea, che a mio parere, anche se lui mi sente, sei più grande di Giove!”. Egli ride, divertito a sentirsi preferire a se stesso. (Ovidio, Metamorfosi, II, 426-430)

E fu in quel momento che bramò possederla manifestandosi in tutta la sua grandiosità e, senza lasciarle il tempo di capire, la strinse a sé vanificando per sempre il voto fatto a Diana. Alla fine, così come improvvisamente era apparso, improvvisamente il re dell’Olimpo si dissolse nell’aria facendo perdere ogni traccia.

Giove ritorna vincitore in cielo. Lei non vuole più vedere quel bosco, quegli alberi che sanno; andandosene di lì, per poco non si scorda di riprendere la faretra con le frecce, e l’arco appeso a un ramo. (Ovidio, Metamorfosi, II, 437-440)

Callisto vagava disperata tra i sentieri del possente Menalo, dove tutto continuava a essere selvaggio e meraviglioso. Con lacrime di rabbia, la paura ancora martellante nel cuore, si faceva strada tra le felci baciate dagli ultimi raggi del sole e pini canori dentro i quali soggiornavano invisibili passerotti. A un tratto la figura fiera e agile di Artemide apparì a poca distanza dalla sventurata assieme al suo seguito. La dea vide Callisto e la chiamò, ma ella d’istinto fuggì, vedendo nella sua beniamina ancora l’immagine ingannatrice di Zeus. Fu la presenza delle altre ninfe a rivelarle che non era così. E si unì al gruppo.

Ahi, quanto è difficile non tradire la colpa col viso! Leva appena gli occhi da terra, e nemmeno si mette al fianco della dea come una volta, non è più la prima di tutta la schiera; tace, invece, e arrossendo fa trasparire l’offesa fatta al suo pudore. Se non fosse che è una vergine, Diana potrebbe intuire il misfatto da mille segni. (Ovidio, Metamorfosi, II, 447-452)

Tuttavia, la verità era destinata prima o poi a venire allo scoperto: Callisto infatti portava nel grembo un figlio. Fu la luna a scandire dolorosamente, mese dopo mese, l’età dell’adulterio. Per nove volte il disco bianco rischiarò la notte fino a che venne il giorno in cui Callisto, insieme alla dea e alle altre ninfe, intraprese la sua ultima battuta di caccia. Al pomeriggio ognuna di loro vantava ormai un ricco bottino, simile a quello che Artemide esibiva con orgoglio, e l’abbondanza della selvaggina dava la misura del dispendio di energie richiesto per conquistarla. Così, quando giunsero in prossimità di un ruscello dall’acqua di cristallo, Artemide propose di fermarsi per un bagno.

Tutte si tolgono i veli, Callisto sola cerca di prendere tempo. Siccome esita, le sfilano la veste, e levata questa, col corpo nudo si scopre anche la colpa.Via di qui! – grida Diana Cinzia; – non profanare questa fonte sacra!” e le ordina di lasciare il seguito. (Ovidio, Metamorfosi, II, 460-465)

Dall’Olimpo intanto un’altra dea aveva osservato tutto fin dall’inizio e attendeva il momento giusto per mettere in atto la sua vendetta: era Giunone, la consorte di Giove, tradita una volta di più dal suo sposo. Quando dall’alto vide anch’ella la scena dello scandalo, si incendiò di rabbia.

Davvero ci mancava anche questo, adultera, che tu restassi incinta e partorendo rendessi noto a tutti l’oltraggio fattomi e dessi la prova dell’indegna condotta del mio Giove! Me la pagherai, però, ché io ti toglierò questa forma di cui ti compiaci e per la quale piaci a mio marito, svergognata!” (Ovidio, Metamorfosi, II, 471-475)

Detto questo, inflisse a Callisto una punizione terribile.

L’affrontò e l’afferrò davanti per i capelli e la gettò a terra bocconi. Quella tendeva le braccia implorando pietà: le braccia cominciarono a farsi ispide di nero pelame, e le mani a curvarsi in adunchi unghioni e a fungere da piedi, e il viso prima ammirato da Giove a deformarsi in un largo ceffo; e perché non commuovesse nessuno con suppliche e preghiere, le fu tolto il dono della parola: dalla gola roca esce un suono iracondo e minaccioso, che incute paura. Anche se fatta orsa, però, conserva la mente di prima e, manifestando la sua sofferenza con continui gemiti, leva le mani, anche se non più mani, verso il cielo e gli astri, intendendo, sebbene non possa dirlo, che Giove è stato ingrato. (Ovidio, Metamorfosi, II, 476-488)

Questo fu il destino cui andò incontro Callisto suo malgrado. Lei che era della schiera dei cacciatori, si ritrovò in quella delle prede, e quante volte la paura l’assalì, di giorno, di notte: a volte era per gli uomini, sagome ostili che intravedeva nascosta fra le rocce e allora scappava per non incorrere nelle loro frecce; al calare dell’oscurità erano invece i lupi ad atterrirla con i loro ululati e le pupille rosse che sbucavano dai cespugli; ma anche davanti agli stessi orsi Callisto arretrava piena di spavento, perché la verità era che dentro a quel grande corpo impellicciato, batteva un cuore umano che mai aveva smesso di essere tale.

Passarono tre lustri e sul monte Erimanto, un cacciatore di altrettanti anni dava prova del suo talento. Si chiamava Arcade e fu lui che diede il nome alla regione dell’Arcadia. Ma il suo nome è legato anche al greco arktòs, che significa orso. E infatti Arcade altri non era che il figlio di Callisto e di Zeus. Non conobbe mai la donna che lo diede alla luce perché il re dell’Olimpo lo portò via appena nato e lo affidò a Maia, madre di Ermes.

Aveva quindici anni quando si trovò all’improvviso faccia a faccia con un orso. Arretrò di colpo e in un attimo imbracciò l’arco, lo munì di freccia e tesolo, lo puntò contro l’animale. Fissò immobile l’avversario, pronto a scattare, e mentre lo guardava vide che non era un orso, ma una femmina d’orso: era sua madre. Arcade tuttavia non poteva saperlo e per lui era solo una femmina d’orso, una bellissima femmina d’orso, la cui uccisione l’avrebbe fatto rincasare da eroe. Callisto invece subito riconobbe il figlio e sobbalzò. Guardò Arcade con occhi acquosi senza che alcuna parola potesse essere pronunciata. Fece per avvicinarsi, ma come mosse il primo passo, Arcade si affrettò a scoccare la freccia.

L’avrebbe il figlio ignaro trafitta con dardo appuntito,se non fossero stati rapiti entrambi in cielo. Stelle vicine ora splendono: Orsa si chiama la prima, s’atteggia Artofilace come chi segue a tergo. Giunone infuria ancora e chiede alla candita Teti che l’Orsa non si lavi nell’onde e non le tocchi. (Ovidio, I Fasti, 187-192)

E a rapirli entrambi in cielo non fu altri che Zeus.

Li bloccò entrambi, e insieme bloccò il delitto, e sollevatili in aria con un vento veloce li collocò nel cielo facendone due costellazioni vicine. (Ovidio, Metamorfosi, II, 505-507)

Le due costellazioni sono l’Orsa Maggiore e Artofilace, conosciuto oggi come Bootes: queste le stelle in cui madre e figlio rifulgono da tempi antichissimi.

Ovidio descrive Artofilace “come chi segue a tergo”, e infatti il nome Artofilace è composto dalle parole greche arktòs che significa “orso” e phylos che significa “amante”, “seguace”: Artofilace è colui che segue l’orsa e a essa è unito da un legame d’amore.

L’Orsa Maggiore poi non si lava nelle onde e non le tocca. Con questa espressione si è voluto giustificare il fatto che la costellazione non scende mai sotto l’orizzonte, dove si riteneva vi fosse l’oceano. L’Orsa Maggiore è infatti una costellazione circumpolare, di quelle cioè che non tramontano mai, non si inabissano sotto la linea dell’orizzonte. Fu Giunone a volere che accadesse così: offesa dalla presenza di Callisto nel firmamento, si recò da Oceano, il più vecchio signore del mare sul quale regnava affiancato dalla moglie Teti.

Volete sapere perché io, la regina degli dèi, sono venuta qui dalle celesti dimore? Perché un’altra sta in cielo al posto mio! Si dica pure che sono bugiarda se, quando la notte avrà oscurato il mondo, non vedrete delle stelle appena assunte agli onori del sommo cielo (che offesa sanguinosa per me!) nel punto dove l’ultimo circolo, il più breve, recinge l’estremità dell’asse”. (Ovidio, Metamorfosi, II, 512-517)

Oceano e Teti ascoltarono la dea fino in ultimo, quando espresse il suo desiderio per quella manciata di stelle:

Voi che mi avete allevato, se vi sentite offesi anche voi da questo spregio, impedite all’Orsa di scendere nei vostri gorghi azzurri, respingete quella costellazione accolta in cielo come prezzo di un adulterio, in modo che la sgualdrina non si immerga nelle acque pure”. (Ovidio, Metamorfosi, II, 527-530)

E i sovrani del mare abbassarono per sempre le loro acque affinché l’Orsa non potesse mai toccarle. Questo fu il mito di Callisto, mito che in Grecia fu molto sentito dal momento che venne preso come riferimento per iniziare le ragazze alla vita matrimoniale.

Vi era infatti in Grecia un rituale chiamato arktèia cui le giovani in procinto di sposarsi venivano sottoposte. L’arktèia segnava il passaggio dalla condizione di vergine, nel mito espressa dalla dea Artemide, a quella di sposa, rappresentata da Era/Giunone. Le ragazze venivano simbolicamente a incarnare Callisto, la vergine che perse la sua verginità divenendo la donna di Zeus.

Il mitografo Apollodoro, raccontando la storia di Callisto (Biblioteca III, 8, 27-28), chiama la seguace di Artemide “ninfa”, precisando che così la descrisse l’antico poeta Esiodo. La puntualizzazione vuole indicare il secondo significato del termine nymphe, col quale non si intendevano soltanto le divinità legate al mondo naturale, ma anche le “donne pronte per le nozze”. Callisto era dunque una ninfa in questo senso della parola e ad Atene le “donne pronte per le nozze”, prima del matrimonio dovevano consacrarsi ad Artemide attraverso il rito dell’arktèia. La celebrazione avveniva nel demo attico di Braurone, dove le giovani dovevano trasferirsi per un periodo e rendere omaggio alla dea imitando le orse; durante il rito indossavano un manto chiamato krokotos, che aveva lo stesso colore dell’animale e al termine del soggiorno lo dovevano offrire ad Artemide. Un sacrificio alle due dee suggellava il passaggio dalla protezione di Artemide a quella di Giunone; ad Artemide infine le ragazze offrivano tutto ciò che ricordava la loro infanzia. La festa religiosa era nota anche col nome di Brauronia e aveva cadenza quinquennale, il 16 del mese di Munichione che per noi corrisponde ad aprile-maggio.

Nell’Orsa Maggiore va ricordata però anche la presenza del Grande Carro, una costellazione nella costellazione che coincide con la schiena e la coda del mammifero artico (di nuovo si noti il legame del nome della calotta terrestre con l’orso). Essa va ricordata per ragioni etimologiche in quanto i Romani videro in quelle stelle sette buoi, in latino septem triones. Da questa identificazione deriva la nostra parola “settentrione”, che designa appunto il nord così come vuole la regione celeste dove dimora il Grande Carro.

L’arte ha celebrato il mito di Callisto specialmente nel Rinascimento con pittori del calibro di Palma il Vecchio o di Tiziano, per rimanere in ambito nazionale. Il momento sottolineato dagli artisti è quello in cui Diana/Artemide scopre la gravidanza di Callisto durante il bagno ristoratore.

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Orsa Minore

Esistono diverse varianti del mito legato alla costellazione dell’Orsa Minore. Sostanzialmente se ne possono individuare tre. Una versione dice che la costellazione era conosciuta col nome di Fenice e i motivi differiscono a seconda delle fonti che si prendono in considerazione.

Il Fragm. Vat. spiega che:

Su questa costellazione fanno affidamento i Fenici e in realtà da loro essa prende l’onore di essere chiamata Fenice. (Fragm. Vat.)

Pare che le navi greche si servissero per l’orientamento dell’Orsa Maggiore, mentre quelle fenicie dell’Orsa Minore, ma non per il fatto che in essa vi era la Stella Polare. A quel tempo infatti – siamo nel III millennio a.C. – la prima stella del timone del Piccolo Carro non segnava il polo nord celeste, il quale si trovava invece nella costellazione del Drago. I Fenici piuttosto preferivano l’Orsa Minore perché era una costellazione che era sia piccola sia vicina al polo celeste, combinazione questa che faceva sì che la sua rotazione quotidiana tracciasse nel cielo un cerchio di diametro contenuto e le sette stelle, a differenza dell’Orsa Maggiore, rimanessero sempre visibili nella stessa zona di cielo. Il mitografo Igino invece giustifica il nome di Fenice col fatto che colui che per primo chiamò la costellazione Orsa Minore era originario della Fenicia.

Questo personaggio è ben conosciuto ed è Talete di Mileto, quello che è considerato il primo filosofo della storia, vissuto a cavallo fra il VII e il VI secolo a.C. Mileto non è in Fenicia, ma sulla costa meridionale dell’Asia Minore, regione al tempo chiamata Ionia, e a quanto pare la città ionica non era quella di nascita del filosofo che dunque sarebbe stato di origini fenicie.

Talete, che esaminò approfonditamente questa materia e per primo chiamò la costellazione Orsa, era di stirpe fenicia, come afferma Erodoto di Mileto.(Igino, Astronomicon)

E aggiunge:

Dunque tutti coloro che abitano il Peloponneso usano la prima Orsa; i Fenici invece, si regolano su quella che il suo scopritore ha suggerito loro, la osservano attentamente ritenendo di poter navigare più sicuri, e di certo la definiscono Fenice per l’origine di chi la scoprì.(Igino, Astronomicon)

Un’altra variante della mitologia dell’Orsa Minore indica la costellazione come Cinosura. Questa era una ninfa che, insieme a un’altra di nome Elice, accudì Zeus quando la madre Rea lo portò sull’isola di Creta affinché il padre Crono non lo inghiottisse come faceva con tutti i suoi figli. Una profezia infatti gli aveva rivelato che egli sarebbe stato detronizzato da uno di loro e così, per evitarlo, il dio li ingoiava dopo che Rea li aveva partoriti. Ma per l’ultimo di essi, la dea rifiutò di vederlo subire lo stesso destino. Su consiglio dei genitori Urano e Gea, gli stessi della profezia di Crono, si recò a Creta, per darlo alla luce lì, lontano dagli occhi di Crono. Lo affidò ai Cureti, i primi sacerdoti di Zeus, insieme ai quali vivevano anche Cinosura ed Elice che si presero cura del piccolo. Rea tornò dallo sposo porgendogli invece una pietra avvolta in fasce e il dio la inghiottì credendola l’ultimo nato. Cresciuto, Zeus avrebbe compiuto la predizione divenendo il nuovo re dell’universo e liberò i suoi fratelli dal ventre del padre, che li vomitò uno dopo l’altro a partire dal sasso.

Ma prima che tutto questo accadesse, Zeus bambino crebbe sull’isola di Creta e, anche se non ne abbiamo testimonianza esplicita, abbiamo ragione di pensare che fu Zeus a voler ricompensare le sue nutrici assegnando loro un posto fra le stelle: Cinosura l’Orsa Minore, Elice l’Orsa Maggiore. Probabilmente gli uomini guardando le Orse, capirono che si trattava delle due ninfe cretesi perché Cinosura significa coda del cane, mentre Elice significa spirale ed entrambe le costellazioni infatti evocano queste forme.

Ma il nome che si è maggiormente affermato per la costellazione, così come la sua rappresentazione celeste come si può vedere nell’Uranographia di Hevelius del 1690 (Fig. 22), è “Orsa Minore”; lo si deve al mito della giovane Callisto, seguace di Artemide, la dea della caccia, vergine per scelta, condizione alla quale chi voleva esserle fedele doveva adeguarsi. Callisto viveva nei boschi dell’Arcadia, una regione greca famosa per i suoi rilievi verdi e selvaggi. Era figlia di Licaone e sin da piccola si era distinta per la sua indole da predatore. Entrò nel seguito di Artemide e ben presto divenne la prediletta della dea. Callisto era anche la più bella e il suo nome significa proprio questo: la più bella. Tuttavia a nessuno era concesso unirsi a lei e chi vi provava, fosse anche stato un guerriero bello e valoroso, veniva respinto: Callisto mai e poi mai avrebbe tradito la dea a cui si era votata.

Ma un giorno fu presa con l’inganno. Zeus, che aleggiava su un piccolo bosco profumato, dove la giovane si era fermata a riposare, la vide e rimase subito turbato dalla sua bellezza. Nell’ammirare quel corpo meraviglioso disteso sull’erba, notò accanto l’arco e la faretra con le frecce; capì subito che si trattava di una vergine di Artemide e conoscendo la fedeltà che legava le giovani alla dea, sedusse Callisto assumendo le sembianze proprio di colei che veneravano. Riuscì così ad avere l’attenzione della fanciulla e le sue lodi, e proprio queste ultime provocarono la sua rivelazione: Zeus non riuscì a resistere alle lusinghe che Callisto credeva di rivolgere ad Artemide e così all’improvviso, la attirò a sé perdendo le sembianze della dea e acquistando le proprie. Fu troppo tardi per la giovane, ormai serrata nell’abbraccio divino di Zeus.

Per diversi mesi riuscì a nascondere la gravidanza che ne derivò, ma un giorno Artemide propose al suo corteo di prendere un bagno in una fonte dall’acqua cristallina. Tutte si tolsero le vesti tranne Callisto che invece indugiava. Le compagne la costrinsero arrivando a sfilarle loro stesse la tunica: il terribile segreto venne alla luce; Artemide, sdegnata, cacciò Callisto per sempre dal suo seguito, mentre Era, la consorte di Zeus, si vendicò del tradimento subìto trasformando la ragazza in un’enorme orsa. Zeus mise in salvo il piccolo che nacque dalla loro unione, Callisto invece si ridusse a vagare raminga fra le montagne dell’Arcadia, triste e con il terrore di essere braccata.

Giunse il giorno in cui questo capitò. Quindici anni dopo la metamorfosi, il figlio di Callisto, Arcade, si imbatté nella madre che non aveva mai conosciuto. Di lei sapeva solo che era stata una cacciatrice di grande talento e che gli aveva trasmesso quella passione e quell’abilità. Così, quando inaspettatamente si trovò di fronte all’orsa, le puntò contro il terribile arco teso; e la freccia sarebbe scoccata colpendo Callisto fatalmente se Zeus non fosse intervenuto bloccando entrambi e dissolvendoli in stelle. Callisto divenne l’Orsa Maggiore mentre Arcade per alcuni venne tramutato nella costellazione di Bootes, per altri in quella dell’Orsa Minore.

Ma, dato che di orsa e non di orso si tratta, probabilmente la versione del mito più coerente coi fatti accaduti è quella in cui Arcade divenne Bootes, mentre l’Orsa Minore fu l’omaggio che Artemide stessa volle fare alla sua prediletta una volta appresa la verità.

Artemide dette fama [a Callisto] ponendone in cielo una seconda immagine di fronte alla prima, così che ne ricevesse doppio onore.(Eratostene, Epitome dei Catasterismi)

E infatti le due figure in cielo si guardano e sono speculari fra loro.

Cassiopea

Raccontare di Cassiopea significa parlare del celebre mito di Andromeda, presente in cielo con tutti i suoi protagonisti trasformati in costellazioni: Perseo, la Balena, Cefeo, padre di Andromeda e sovrano d’Etiopia, e appunto Cassiopea, la madre nonché regina. Chi conosce la vicenda della principessa etiope sa che, al nome della fanciulla, il pensiero va a una ragazza incatenata a uno scoglio in attesa di essere divorata da un mostro marino, la Balena, fino a quando dall’alto non arriva l’eroe Perseo a salvarla. Il mondo dell’arte è colmo di quadri che illustrano la scena, la quale ha ispirato tanti pittori rinascimentali, e ancora oggi non smette di alimentare la creatività degli artisti. Tuttavia il vero motore del mito sta nel personaggio di Cassiopea, la madre di Andromeda, raramente presente nelle opere d’arte e, forse per questo, passata indebitamente in secondo piano. Se Andromeda dovette essere sacrificata agli dèi, fu infatti a causa di Cassiopea. Il mitografo greco Apollodoro racconta in poche righe l’accaduto:

Giunto in Etiopia, dove regnava Cefeo, Perseo trovò che la figlia del re, Andromeda, era stata offerta in pasto a un mostro marino. Era accaduto che Cassiopea, la moglie di Cefeo, aveva sfidato le Nereidi a una gara di bellezza, vantandosi di essere superiore a tutte loro. Le Nereidi si adirarono, si adirò anche Poseidone che mandò contro il paese un’inondazione e un mostro marino. L’oracolo di Ammone sentenziò che avrebbero posto fine alla sciagura se la figlia di Cassiopea, Andromeda, fosse stata offerta in pasto al mostro. (Apollodoro, Biblioteca, II, 4, 3)

E così fu. Cassiopea era una donna di grande bellezza e a tradirla furono la consapevolezza del suo splendore e l’orgoglio in cui cadde. Con la gara che indisse in realtà, ella desiderava forse più che vincere, che le divinità riconoscessero che la sua bellezza andava oltre l’umano, che era una bellezza divina appunto, innestata però in un corpo non altrettanto potente, inadeguato per così dire; Cassiopea incarnava una magnificenza infinita destinata però a svanire a causa dell’effimera condizione mortale che le era toccata, dunque il suo dono portava con sé una sorta di ingiustizia: che andava rivendicata. Dal suo palazzo in prossimità della costa, quante volte la regina deve aver guardato lo sconfinato mare dominato dal tridente di Poseidone e pensato che laggiù, nei fondali taciturni, danzavano spensierate le Nereidi, meravigliose divinità dell’acqua a cui lei non era inferiore in nulla se non nella mortalità.

Dopotutto era una regina fortunata, si ripeteva, era la regina di una terra baciata dal sole e dal mare, amata dal suo popolo e ancor più da Cefeo, re saggio e sposo fedele, che nemmeno un giorno mancava di adorarla come fosse una dea. Già, una dea. Ma una dea non era … e l’amabile Cefeo non era Poseidone. Eppure lei era bella come una dea, anzi era bella come cinquanta dee; di più: era più bella delle cinquanta dee più belle del mare! Le amabili figlie di Nereo, il sovrano dei fondali prima di Poseidone. Le lusinghe di Cefeo la rendevano felice sì, ma solo per il breve attimo in cui le parole uscivano dalla bocca innamorata. Il pensiero poi andava all’ingiustizia che riteneva di aver subito, e il sorriso si spegneva in un’espressione malinconica. Il tempo passò. Cassiopea ebbe una figlia che chiamò Andromeda e la cui grazia cresceva di pari passo. Trascorsero dunque gli anni anche per la regina, ma il suo splendore rimase intatto, il suo fascino della stessa consistenza, nonostante qualche lieve segno del tempo si fosse appoggiato sul suo viso. Al tramonto amava passeggiare in riva al mare, lasciandosi vezzeggiare dal vento che si insinuava fra i suoi capelli e le scopriva il viso per baciarla. Fu durante uno di quei tramonti che Cassiopea si ritrovò a fissare le acque mentre piccole onde le bagnavano i piedi a intervalli regolari. Pensava alle cinquanta figlie di Nereo: Galatea, Doride, Teti, Eudora… Una a una le ricordò tutte e per ognuna concludeva che in fondo non era bella quanto lei. Per qualche istante immaginò le Nereidi davanti a sé, emerse dall’acqua, che l’ascoltavano. Con fare sarcastico, finalmente si vendicava, e lo faceva dicendo loro che l’eternità di cui godevano, non serbava in realtà alcunché di invidiabile, poiché altro non sarebbe stata se non un continuo monito della loro inferiorità dinanzi alla regina d’Etiopia. Perché lei, Cassiopea, avrebbe potuto sfidarle anche a una gara di bellezza sicura di riportare la vittoria. Assorta in questi pensieri, non si rese conto che la conversazione immaginaria era giunta alle Nereidi. Le creature flessuose rimasero sbigottite all’udire una simile arroganza e, adirate, riferirono tutto a Poseidone: Cassiopea con il suo discorso insensato, quello che i greci chiamano “acreios logos”, si era macchiata di “hybris”, uno degli atteggiamenti più gravi che gli esseri umani potessero assumere. Hybris è l’insolenza, l’oltraggio, la prepotenza con cui gli uomini pretendono di superare la loro condizione, osando raggiungere gli dèi, dunque osando sfidarli. Nella mitologia greca la hybris è un tema molto sentito perché va a minare alla radice il rapporto dell’uomo con il divino. Chi si disonora con la hybris è come se commettesse nei confronti degli dèi un vero e proprio reato, con essa infrange il “cosmos”, l’armonia, l’ordine stabilito alla creazione dell’universo. Per questo alla hybris segue quasi sempre la “nemesis” divina, ossia la vendetta. Poseidone infatti non tardò a punire la regina vanitosa. Ma la punizione divina quasi mai si limita a castigare solo il colpevole, piuttosto essa si estende a tutto il mondo che gli ruota attorno. E così, la terra d’Etiopia venne prima inabissata con una tremenda inondazione e poi paralizzata con le scorrerie di un mostro feroce inviato nel mare che la lambiva. Come porre rimedio a una situazione tanto drammatica e allo stesso tempo segno di scandalo? Il buon Cefeo, disperato, fece quello che ogni antico avrebbe fatto in simili circostanze: consultò un oracolo. In Africa, l’oracolo più famoso e potente era quello egizio di Ammon. Nell’oasi di Ammon si recò il re d’Etiopia e lì venne a sapere la terribile richiesta che gli dèi avanzavano per placare la loro ira: Cefeo doveva sacrificare sua figlia – la sua unica figlia – alla belva che spadroneggiava nelle acque costiere. A tanto dunque conduceva l’insolenza umana. Affranti e inconsolabili Cefeo e Cassiopea ubbidirono all’oracolo, e Andromeda fu incatenata a uno degli scogli che si ergevano in quella parte di mare. Concentrati sul rumore, per la prima volta sinistro, dello sciabordare delle acque, i sovrani insieme agli abitanti sopravvissuti, attesero che si compisse il volere degli dèi. E la nemesi divina si sarebbe realizzata se non fosse sopraggiunto l’intervento salvifico di Perseo, eroe argivo di ritorno dalla missione nel regno delle funeste Gorgoni. Una di esse era Medusa, creatura dai capelli di serpi e dagli occhi fatali, chi ne incrociava lo sguardo diveniva all’istante un corpo di pietra, senza più vita. Perseo stava tornando vincitore dalla sfida e volava nell’aria grazie ai sandali alati dono di Ermes, portando chiusa in un sacco la testa di Medusa, i cui occhi non avevano perso il loro potere. Quando si trovò a sorvolare la costa devastata da tanta furia, la bellezza di Andromeda lo conquistò in pochi attimi e, compreso il destino che l’attendeva, si precipitò da Cefeo promettendogli di salvare la figlia a patto di poterla avere in sposa. Fu così che servendosi del suo trofeo, Perseo pietrificò il mostro e liberò la principessa che poi sposò. L’epilogo della vicenda giunse nelle profondità del mare per bocca di Tritone, figlio di Poseidone e Anfitrite. Egli raccontò il salvataggio di Andromeda e le sue successive nozze con Perseo, a Doride e a Ifianassa, due Nereidi che così commentarono:

Ifianassa: “A me l’accaduto non dispiace per niente. Che torto ci ha fatto la fanciulla se sua madre era piena di superbia e pretendeva d’esser più bella?”

Doride: “Ma così si sarebbe addolorata per la figlia, lei che era sua madre”.

Ifianassa: “Non stiamo più a rivangare quelle cose, Doride, se una donna barbara ha cianciato ben al di là del giusto. E’ abbastanza la pena che ci ha pagato, la paura per la figlia. Rallegriamoci dunque per le nozze”. (Luciano di Samosata, Dialoghi Marini, 14)

Andromeda fu quindi risparmiata, l’ira degli dèi si placò, accontentandosi dello shock procurato a Cassiopea. D’altra parte il destino ultimo della principessa etiope era quello di dare una ricca e gloriosa discendenza a Perseo.Per quel che riguarda Cassiopea invece, gli dèi esaudirono in un certo senso il desiderio di immortalità della regina. La trasformarono in costellazione e la posero su un trono proprio nella calotta del cielo, là dove le stelle non tramontano mai. Tuttavia la sua hybris non si poteva cancellare; anzi, la storia di Cassiopea doveva fungere da avvertimento a tutti gli uomini. Per questo ella fu posta sulla volta celeste capovolta e…

in atto che ne figura la condanna e presso alla derelitta Andromeda, paurosa delle fauci immani della Balena, [la piange esposta alla marina e incatenata agli scogli] se Perseo anche in cielo non fosse fedele all’antico amore e non le porgesse soccorso e non sorreggesse il non contemplabile volto della Gorgone, trofeo per lui e rovina per chi vi fissi lo sguardo. (Manilio, Astronomica, I, 355-360)

Come si può vedere dalla tavola uranografica risalente alla fine del XVII secolo, opera dell’astronomo polacco Johannes Hevelius (Fig. 26), Cassiopea ruota attorno alla stella polare rivolta verso il basso. Per il resto, nel mondo dell’arte la regina non appare frequentemente e, laddove lo sia, viene ritratta pressoché sempre accanto a Cefeo nella scena simbolo del mito di Andromeda, quella in cui la principessa viene salvata da Perseo. Un quadro dello stesso periodo dell’Uranographia di Hevelius, è quello del francese Pierre Mignard conservato al Louvre (Fig. 27) dal titolo “Andromeda e Perseo”. In questa tela sono i personaggi dipinti che guidano lo spettatore a riconoscere i vari elementi della vicenda. Al centro della scena Cefeo si inchina a baciare la mano provvidenziale di Perseo in segno di riconoscenza e di profonda sottomissione, un comportamento questo volutamente stridente con una testa coronata quale è quella del re. Cassiopea è accanto al marito e cinge Perseo. Egli la guarda e la tranquillizza indicando a lei e allo spettatore la figlia salva. L’attenzione si sposta così su Andromeda al lato del dipinto, dove un amorino sta sciogliendo le catene. Un altro invece è impegnato a tenere le briglie di Pegaso, il cavallo alato generatosi dal collo decapitato di Medusa. In una variante del mito infatti, Perseo non indossa i sandali alati di Ermes, ma vola su Pegaso. All’altro lato del quadro infine sta la folla che, insieme alla coppia regale, attendeva sofferente il compimento del sacrificio. Le donne acclamano l’eroe, mentre gli uomini guardano increduli il mostro marino che giace inerte sulla riva, pietrificato dallo sguardo di Medusa. A pochi passi di distanza, la testa mozzata della Gorgone è riversa sulla sabbia.

 

 

CEFEO

Nel luccichio di stelle poste di fronte a Cassiopea, gli antichi immaginarono di vedere il suo consorte nonché re d’Etiopia, Cefeo. La sua figura è legata al mito di Perseo e Andromeda, mito che sulla volta celeste è presente in ben cinque costellazioni: Perseo, Andromeda, Cassiopea, Cefeo e la Balena. I greci erano molto legati alla saga dell’eroe la cui origine è fra le più remote e, forse anche per questo, dedicarono una gran parte di cielo alla sua storia. La vita di Cefeo si incrociò con quella di Perseo quando il giovane figlio di Zeus stava facendo ritorno all’isola di Serifo, dopo aver vinto la scommessa di uccidere la Gorgone Medusa. Quella vittoria gli avrebbe permesso di riscattare sua madre Danae, vittima della violenza di Polidette, zio della donna e re dell’isola. Grazie ai sandali alati dono di Ermes, Perseo rientrava dalla sua impresa in volo, finché un giorno si trovò a sorvolare l’Etiopia.

La terra africana versava in grave miseria. La regina Cassiopea, donna splendida e alquanto vanitosa, aveva sfidato gli dèi proclamandosi più bella delle ninfe marine, le Nereidi, rinomate proprio per la loro eccezionale bellezza. La punizione per un simile oltraggio fu terribile e non colpì solo la responsabile, ma sconvolse l’intero paese su cui ella regnava insieme al marito: Poseidone sfogò la sua ira dapprima rovesciando gran parte del suo mare sul territorio, e poi inviando un mostro nelle acque etiopi, le quali da quel momento non furono più navigabili. La popolazione era ridotta allo stremo e i morti si contavano a decine.

Cefeo, re mite ed estremamente legato alla sua gente, era disperato e non sapeva come porre rimedio a un simile sfacelo. Com’era abitudine a quei tempi, decise di rivolgersi a un oracolo nella speranza che gli rivelasse cosa doveva fare per placare l’ira divina. L’oracolo fu un pugno nello stomaco: gli dèi chiedevano un sacrificio umano; chiedevano la vita di sua figlia, Andromeda, presentata non su un vassoio d’argento ma tra le fauci della fiera di Poseidone. All’udire una simile sentenza, Cefeo rimase impietrito, senza capire se era solo un brutto sogno o se era tutto vero. Tornato a palazzo, meditò a lungo cercando di mettere ordine ai pensieri che si affollavano convulsi nella mente. Ma poi gli bastò affacciarsi su ciò che rimaneva della sua prospera terra per capire che l’unica cosa che doveva fare, era obbedire agli dèi e offrire loro la sua amata e unica figlia. Lo doveva come re. Col cuore a pezzi, si accinse così a mettere in pratica la volontà degli immortali e, accompagnato dalla moglie Cassiopea, straziata anch’ella dal dolore, condusse Andromeda alla spiaggia. Era mattina e tutti gli abitanti sopravvissuti erano accorsi a dare l’ultimo saluto alla principessa, che mai avrebbero voluto vedere soffrire. Andromeda era una ragazza incantevole, aveva ereditato la stessa bellezza della madre, ma il carattere era quello nobile e virtuoso del padre. Nonostante il terrore le togliesse il respiro, si accostò alla roccia acuminata che affiorava dal mare con grande dignità e pronta a esservi incatenata. Trascorsero alcune ore prima che il mostro apparisse tra i flutti, ore interminabili, col fiato sospeso e il cuore in gola. Ma poi la belva annunciò il suo arrivo agitando con vigore le acque, fino a quando con un balzo improvviso emerse in tutta la sua enormità. Grida si levarono dalla spiaggia, pianto disperato dalla gola di Cassiopea, terrore soffocato sfigurava il volto di Cefeo. Andromeda chiuse gli occhi fino a sigillarli, irrigidendosi come una statua, e la situazione sarebbe precipitata se dall’alto non fosse apparso inaspettatamente Perseo. Strappate con fatica le parole sull’accaduto ad Andromeda, l’eroe non esitò a rivolgersi ai sovrani con una proposta irrinunciabile:

Per piangere potrete avere tutto il tempo che vorrete; per portare soccorso, ci sono pochi attimi. Se io chiedessi la sua mano, io, Perseo, figlio di Giove e di colei che quand’era imprigionata fu ingravidata da Giove con oro fecondo, Perseo vincitore della Gorgone dalla chioma di serpi, che oso andarmene per l’aria del cielo battendo le ali, non sarei forse preferito come genero a chiunque altro? A così grandi doti, solo che mi assistano gli dèi, cercherò comunque di aggiungere un merito. Facciamo un patto: che sia mia se la salvo col mio valore!” (Ovidio, Metamorfosi, IV, 695-703)

Qualsiasi cosa avrebbe accettato Cefeo pur di avere salva la sua unica e prediletta figlia, a maggior ragione se la salvezza veniva da un discendente diretto di Zeus. E così, Perseo si batté con la bestia acquatica e la vinse costringendola a guardare il volto di Medusa. La ricompensa promessa fu elargita con la più fastosa delle cerimonie. Cefeo organizzò per i due giovani un matrimonio grandioso e al contempo trionfale, addobbando le mura cittadine senza risparmi e procurando vivande e vini in abbondanza. Tuttavia i guai per Cefeo non erano finiti. Andromeda infatti era stata promessa in sposa allo zio Fineo, fratello del re, il quale proprio durante il banchetto rivendicò la ragazza scortato da una folla di seguaci in armi e provocando una feroce rissa fra gli invitati.

In testa a tutti Fineo, colui che, temerario, dette inizio alla zuffa, agitava una lancia di frassino dalla punta di bronzo e gridava: “Eccomi, eccomi a vendicarmi! Tu mi hai carpito la sposa, ma né le ali né Giove trasformato in falso oro sottrarranno te a me!” E fece per tirare, ma Cefeo esclamò:Che fai? Che pazzia ti spinge, fratello, a commettere un delitto? Così ringrazi Perseo per tutti i suoi meriti? Con questo dono lo ripaghi per averle salvato la vita? Non lui, se ci pensi bene, te l’ha tolta, ma l’ira delle divine Nereidi, ma Ammone che porta le corna, ma il mostro marino che veniva a ingozzarsi della carne della mia carne. Tu hai perduto Andromeda nel momento in cui fu deciso che doveva morire – a meno che tu non sia così crudele da voler proprio questo, che essa muoia, e da consolarti col mio lutto! Evidentemente non basta che sia stata legata sotto i tuoi occhi senza che tu, zio o fidanzato che fossi, le portassi il minimo aiuto. Addirittura ti dispiace che uno l’abbia salvata e vuoi strappargli la ricompensa? Se questa ti sembra eccessiva, dovevi andartela a prendere su quello scoglio sul quale era esposta! Lascia quindi che colui che ci è andato, grazie al quale io non sono ora un vecchio sconsolato, si porti via ciò che ha pattuito con le parole e meritato coi fatti, e cerca di capire che è stato preferito non a te, ma ad una morte sicura!” (Ovidio, Metamorfosi, V, 8-29)

Con simili parole di saggezza Cefeo dimostrò ancora una volta la lealtà del suo animo, ma purtroppo senza sortire effetto alcuno sul fratello impazzito.Un sanguinoso tumulto compromise la festa nuziale fino a quando Perseo estrasse di nuovo la testa della Gorgone e, dopo aver invitato a voltarsi chi di loro gli fosse amico, la rivolse verso i nemici. Uno dopo l’altro si trasformarono in duro marmo e Fineo non fu risparmiato. Così giustizia fu finalmente fatta e gli dèi premiarono l’ubbidienza e la rettitudine di Cefeo regalandogli un posto fra le stelle, vicino alla sua sposa, alla sua adorata figlia e a colui che aveva reso possibile tutto questo, Perseo. Non solo, Cefeo fu posto fra quelle stelle che non tramontano mai, affinché ogni giorno fosse un invito per l’uomo a rispettare la volontà divina e ad agire con rettitudine. E allora eccolo in tutta la sua magnificenza in una delle tavole dell’atlante celeste creato nel XVII secolo dall’animo gentile dell’astronomo Johannes Hevelius (Fig. 14). Ritratto in gioventù in un sontuoso abito regale, Cefeo guarda rapito la sua sposa poco distante. Egli non sa ancora della prova che dovrà affrontare per via della vanità della donna che ama; solo il sentimento d’amore abita le stelle che lo circondano come una promessa di felicità che non verrà tradita.

Una bella immagine che riunisce tutti i protagonisti della favola di Andromeda si trova su un’anfora a figure rosse del 325 a.C. ritrovata in Puglia e oggi conservata al Paul Getty Museum di Malibu (Fig. c15).

Cefeo, a sinistra, si regge al bastone e guarda impotente la sua Andromeda, incatenata alla roccia, mentre in basso Perseo lotta col mostro marino servendosi del falcetto donatogli da Ermes.

Un cupido alato sta sulla schiena della creatura malefica come preludio al lieto fine della vicenda.

v

 

 

Drago

Vorrei giungere alla terra ricca di meli,

alla terra delle Esperidi dal canto soave,

dove il signore del mare, sovrano

delle acque scure,

nega la via ai naviganti:

è il sacro confine del cielo

sorretto da Atlante.

Fonti di ambrosia scorrono

presso il letto di Zeus,

dove la terra divina, ricca di doni,

accresce la felicità degli dèi. (Euripide, Ippolito, 742-752)

dr

Così cantava il coro delle donne della città di Trezene, imminente spettatore della tragedia che stava per consumarsi nelle stanze reali del palazzo di Teseo. Fedra, la regina, nel giro di pochi minuti si sarebbe tolta la vita per l’insostenibile vergogna di essere stata scoperta dal marito nell’inganno passionale teso a Ippolito, il figlio di prime nozze del re. Quelle donne avrebbero voluto non essere lì, non sapere nulla di ciò che stava per accadere e non saperlo mai, avrebbero voluto essere nella terra delle Esperidi, la terra che ospitava il giardino degli dèi, la terra che nell’immaginario collettivo, rappresentava l’unico luogo del pianeta rimasto inviolato e che, proprio per questo, suscitava il desiderio di rifugiarvisi per sempre; lontani dalle miserie delle vicende umane, avvolti da una soffice cortina d’oblio che avrebbe dissolto le ceneri dell’anima fino a cancellarne il ricordo. Il giardino delle Esperidi… il giardino più ambito dalla stirpe dei mortali e allo stesso tempo proprio quello ad essi negato dagli dèi. Lo sapeva bene il poeta Pindaro che nel V secolo a.C. svelava che…

[…] di tutte le splendide cose

che noi stirpe mortale attingiamo,

navigando [l’uomo] tocca l’ultimo approdo;

ma tu non troverai per mare

né a piedi la via meravigliosa

che porta alle feste degli Iperborei. (Pindaro, Pitiche, X, 43-48)

E con quest’ultimo verso si aggiunge un particolare sul giardino meraviglioso, cioè che si trovava nel paese degli Iperborei. Essi sono letteralmente coloro che abitano “oltre Borea”, il vento del nord. Lo storiografo Diodoro Siculo vissuto durante il regno di Augusto, diceva che la loro terra era un’isola e che era posta sotto le costellazioni delle due Orse, dunque nell’estremo settentrione. Egli scriveva anche che:

Quest’isola sarebbe fertile e produrrebbe ogni tipo di frutto; inoltre avrebbe un clima eccezionalmente temperato, cosicché produrrebbe due raccolti all’anno.

[…] Dicono poi che da quest’isola la luna appaia a pochissima distanza dalla terra, e con alcuni rilievi quali quelli della terra chiaramente visibili su di essa. (Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, II, 47)

Oltre al dettaglio astronomico che riporta Diodoro, si trattava dunque di un vero e proprio Eden pagano che, come quello cristiano, fruttificava spontaneamente e per tutto l’anno – questo il significato della produzione di due raccolti annuali – così che i suoi abitanti vivevano in condizioni di assoluta felicità e innocenza. D’altra parte che, nell’antica concezione greca, il Nord rappresentasse un mondo fuori dall’ordinario, è facilmente comprensibile se si pensa alle caratteristiche climatiche e astronomiche delle regioni polari, radicalmente opposte a quelle mediterranee: più ci si dirige a Nord infatti più l’aria si fa fredda, fino a quando c’è spazio solo per paesaggi di ghiaccio, dalle condizioni ambientali proibitive per l’uomo, almeno per quello dell’Egeo. Tanto che egli non ci arrivava mai davvero, limite questo che gli antichi tradussero in termini di distanze non infinite ma talmente ampie da essere di fatto irraggiungibili; il Nord era il confine del pianeta, là la terra aveva termine.

Il polo è poi teatro di fenomeni stranissimi come le aurore boreali che agli occhi dei primi Greci dovevano apparire qualcosa di magico: lastre di luce dai colori fosforescenti, scenari onirici improbabili da decifrare. E ancora, più ci si spinge a Nord più si sperimenta un Sole che non tramonta mai; la notte non esiste, mentre dopo sei mesi, è il giorno a scomparire mentre tenebre stellate occhieggiano sugli immobili paesaggi di cristallo per altri sei mesi. A sorreggere infine tutta quella massa di cielo, un Titano: Atlante. Appartenente alla seconda generazione di dèi, quella dei Titani un tempo governatori del mondo, si era alleato con loro per impedire l’ascesa di Zeus al potere nella celebre battaglia che va sotto il nome di Titanomachia. Ma i Titani persero e Atlante fu condannato a soppesare sulle spalle e sul collo il carico dell’intera volta celeste.

Atlante il cielo ampio sostiene, a ciò costretto da forte necessità,

ai confini della terra, di fronte alle Esperidi dal canto sonoro,

con la testa facendo forza e con le infaticabili braccia;

tale destino assegnò a lui Zeus accorto. (Esiodo, Teogonia, 517-520)

Le Esperidi, coloro che battezzano l’ultimo lembo di terra ad uso esclusivo degli dèi, erano le figlie che Atlante ebbe dall’unione con Esperide. Erano sette come sette erano le Pleiadi, le altre figlie del Titano la cui madre era invece l’Oceanina Pleione. La dimora delle Esperidi era in quel frammento sacro del paese degli Iperborei, il famoso giardino, che tanto importante divenne perché ospitò le nozze della coppia divina per eccellenza, quella formata da Zeus ed Era.

Del giorno del loro matrimonio restavano precise testimonianze: le Esperidi, degli alberi carichi di mele d’oro e un gigantesco serpente di nome Ladone, quello che nel firmamento è conosciuto come la costellazione del Drago. La scia tortuosa di stelle si trova proprio nella calotta polare del cielo come se questa fosse uno specchio affacciato sul giardino, dentro il quale però si riflette soltanto l’immagine del serpente; una selezione visiva che pare mirata a ricordare a tutti il ruolo di Ladone di guardiano dei meli dorati.

Ferecide infatti dice che in occasione del matrimonio di Era con Zeus, quando gli dèi le recarono doni, la Terra vi andò portando frutti d’oro; Era li vide, li ammirò e decise che fossero piantati nel giardino degli dèi, che si trovava vicino ad Atlante. E siccome le figlie di lui continuamente rubavano i frutti, la dea vi mise a guardia il serpente che era enorme. (Eratostene, Epitome dei Catasterismi, 3)

I pomi nuziali della Terra splendevano quindi al riparo degli occhi vigili del rettile e nessuno osava tentare il furto anche di uno solo. Ma molto lontano da quel paradiso terrestre, nella città di Tirinto, vi fu chi volle infrangere le regole stabilite dagli dèi. Euristeo, il re della cittadella micenea, ordinò a Eracle, suo cugino e suo schiavo, l’undicesima fatica, consistente nel portargli proprio le mele sacre a Era. Questo significava trovarsi a faccia a faccia con Ladone, affrontare il suo pericoloso sibilo sprigionato dalle fauci strette e tuttavia voraci o, nella peggiore delle ipotesi, essere strangolati nella morsa letale delle sue spire. Ma prima ancora significava dover trovare la terra delle Esperidi, il paese degli Iperborei, rintracciare insomma il suolo proibito ai mortali. In realtà a Euristeo non interessava possedere le mele d’oro; il suo scopo era mantenere la sottomissione di Eracle attraverso il fallimento dell’impresa. Nessuno avrebbe potuto portarla a compimento, specialmente perché, anche qualora egli avesse localizzato il giardino di Era, non sarebbe sopravvissuto allo scontro col serpente. Ma naturalmente non apparteneva all’eroe il tirarsi indietro e così Eracle, nel cui nome sta scritto “gloria di Era”, ignaro delle ulteriori prove che si sarebbero aggiunte strada facendo, partì alla ricerca del paese degli Iperborei.

Affrontò per primo il figlio di Ares, Cicno, quasi quell’incontro fosse un monito del dio della guerra a non osare proseguire, intimato attraverso la sua prole sanguinaria. Ma Eracle non prestò ascolto e in un duello senza esclusione di colpi, vinse il figlio di Ares. E proseguì il suo viaggio.

Giunse presso le Ninfe, figlie di Zeus e di Temi: esse gli rivelano dove si trova Nereo. Eracle lo colse nel sonno e, benché assumesse forme di ogni genere, riuscì a legarlo e non lo liberò prima di aver saputo da lui dove si trovavano le mele delle Esperidi. Quando l’ebbe saputo, si mosse attraverso la Libia. (Apollodoro, Biblioteca, II, 5, 11, 255-258)

Ma ciò che non sapeva era che un quartetto di ulteriori prove lo attendeva in quei territori roventi e arsi dal vento.

In Libia si trovò al cospetto del re del paese, un ammasso nerboruto di proporzioni smisurate. Era Anteo, uno dei giganti figli di Gea, la Madre Terra. Egli aveva l’abitudine di accogliere gli stranieri sfidandoli a una lotta senza possibilità di vittoria; creatura terrigena, traeva infatti tutta la sua immane forza dal contatto col suolo, che gli restituiva perciò costantemente l’energia consumata. Eracle dovette allora affidarsi all’astuzia oltre che alla potenza: sollevatolo da terra lo strinse a sé e, nonostante i tentativi di Anteo di divincolarsi, non gli permise di toccare terra, fino a quando con una mossa brusca e repentina delle braccia, gli spezzò la spina dorsale. Fu poi la volta del potente e ricco paese d’Egitto che da nove anni però versava in gravi condizioni per via di una carestia scatenata dagli dèi. Un indovino cipriota predisse al faraone Busiride che le divinità avrebbero placato la loro collera se ogni anno egli avesse immolato a Zeus un uomo straniero. Busiride acconsentì e iniziò i sacrifici proprio dal veggente di Cipro per continuare poi con tutti i forestieri che attraversavano il suo regno. Alla stessa sorte era destinato anche Eracle, di passaggio nella terra del Nilo. I sacerdoti di Busiride lo legarono e lo condussero nel tempio presso l’ara sacrificale. Ma ancora una volta la forza dell’eroe, figlio di Zeus, gli permise di rompere i lacci e, libero, uccise il faraone.

Il viaggio proseguì in Etiopia dove stavolta ad attaccarlo, e ad avere la peggio, fu il sovrano Emazione. E infine Eracle giunse nel lontano Caucaso, le cui montagne ripercuotevano l’eco straziante delle grida di Prometeo, il Titano che aveva osato rubare la folgore a Zeus per far conoscere il fuoco agli uomini. Agganciato mani e piedi alla rupe più alta, attendeva la notte dalle cui stelle fuoriusciva puntuale l’aquila di Zeus, bramosa di affondare il becco nel fegato immortale di Prometeo. Eracle pose fine al supplizio del Titano scagliando contro il rapace una delle sue frecce intrise del veleno letale dell’idra.

Finalmente la terra delle Esperidi affiorò all’orizzonte: su un lembo di notte appena rischiarato da una falce di luna, si stagliava la sagoma di Atlante, mirabile, che sosteneva pazientemente la volta stellata. Eracle si accostò così al secondo Titano, fratello di Prometeo e ne contemplò la struttura che pur se contratta per lo sforzo, era colossale; proclamava l’orgoglio per una maestosità inviolabile, qualunque fosse stata la l’umiliazione inflitta. I due, posti l’uno di fronte all’altro, si guardavano come se ognuno vi avesse riconosciuto un proprio strano e inaspettato ritratto: era forse Eracle un Atlante in miniatura o Atlante un Eracle gigantesco? Chi dei due mostrava all’altro l’epilogo del loro comune destino di servi maledetti? Il castigo di Atlante avrebbe avuto termine, come suggeriva il numero dodici delle fatiche di Eracle, o sarebbe stato invece Eracle a non conoscere mai la conclusione delle prove che lo perseguitavano fin dalla nascita, come voleva l’immutabilità di Atlante?

Il figlio di Zeus tenne lontano il pensiero di quella sinistra possibilità per non compromettere la concentrazione del momento e, raccolto ancora una volta tutto il suo coraggio, varcò la soglia del giardino delle Esperidi. Una visione di armonia assoluta lo colse e lo confuse; pareva impossibile che in quel rifugio di delizie potessero nascondersi delle insidie: l’erba tenera sotto i piedi cancellava la stanchezza, un trionfo di fiori dalle infinite varietà punteggiava i prati di colore e inebriava l’aria con profumi ora sensuali ora fruttati, mentre le piante abbondavano talmente di mele da vedere i propri rami piegarsi.

Era un immenso, generoso dono di pace e solo allora Eracle si accorse di essere tremendamente assetato e sfinito. Ma non doveva cedere, non ancora.Una rapida occhiata lungo il perimetro sacro ispezionando l’intrico di rami alla ricerca di Ladone, per poi focalizzarsi sugli alberi nel cuore del recinto; ed ecco, tra le foglie fitte di uno dei meli, due occhi di rettile lo stavano fissando, rossi e terribili. Il serpente era lì, immobile, seminascosto dalle fronde e gelosamente avvinghiato al tronco. Le parti di pelle che si intravedevano lasciavano intuire un corpo enorme, alle cui spire sarebbero bastati pochissimi istanti per stritolare qualsiasi uomo. Ladone studiava l’ospite inatteso e per nulla gradito, incapace di trattenere il sibilo avido che gli nasceva in gola, e nel suo irrigidimento si leggeva chiara l’intenzione di fare di Eracle una preda esemplare. Lo spazio circostante si popolò in poco tempo anche delle Esperidi: una ad una apparvero fra gli alberi come spiriti e si avvicinarono all’eroe nelle loro lunghe vesti bianche che una brama di vento faceva aderire ai loro corpi, svelandone le forme seducenti e ieratiche. Eracle spostò lo sguardo dalle figure di sogno all’odioso serpente e infine ai pomi. Erano tondi, maturi… d’oro! Ma bastò la fiamma che si accese nei suoi occhi al vedere la meta della sua impresa, che Ladone attaccò con uno scatto improvviso delle fauci, e fiele denso e scuro gli schizzò contro. Il lungo ventre si srotolò dall’albero e avanzò nell’erba verso Eracle, le vergini fuggirono gridando terrorizzate e l’aria tutt’a un tratto si avvelenò di odio e sudore. Senza attendere un secondo di più, il figlio di Zeus caricò l’arco con una delle frecce intrise del siero letale dell’idra di Lerna e la scoccò centrando il bersaglio. Il colpo servì a bloccare la rapida avanzata di Ladone, il quale rispose con un secondo fiotto velenoso. Il serpente, istigato, riprese poi la sua marcia verso Eracle, mentre il veleno che impregnava la punta del dardo iniziava a diffondersi dolorosamente nel corpo. L’eroe vibrò un’altra freccia e poi un’altra ancora, fino a quando la bestia, impotente, afflosciò il capo al suolo con un forte gemito.

Il giardino tornò ad essere invitante, sebbene la massa inerte di Ladone, grottescamente contratta e macchiata di sangue offrisse un macabro spettacolo. Eracle posò lo sguardo sulle mele che splendevano tra il fogliame nella notte iperborea e parevano tante lune appese. Ne colse tre e provò una imperdonabile sensazione di sacrilegio, poi si avviò sulla lunga via del ritorno. Ma strada facendo, dentro di sé, promise a Era che i frutti sacri che, costretto, aveva dovuto rubare, le sarebbero stati restituiti. Il tempo di mostrare a Euristeo la riuscita dell’impresa e di farlo vergognare per l’oltraggio alla sposa di Zeus, e i pomi aurei sarebbero tornati all’unico posto cui appartenevano: il giardino delle Esperidi.

Portò dunque le mele e le consegnò a Euristeo; questi le prese e le donò a sua volta a Eracle: Eracle le diede ad Atena che le riportò di nuovo dalle Esperidi, perché non era lecito che fossero collocate in un luogo qualsiasi. (Apollodoro, Biblioteca, II, 5, 11, 293-295)

Prima che questo accadesse però, e precisamente il giorno dopo l’uccisione del serpente, riuscirono a giungere nelle terre precluse ai mortali gli Argonauti, cinquanta eroi al fianco di Giasone diretti nella Colchide per impossessarsi del vello d’oro dell’ariete immolato.

Arrivarono alla sacra pianura dove, ancora il giorno prima,

il drago nato dalla terra, Ladone, vegliava le mele d’oro,

nel regno di Atlante, e intorno le Ninfe Esperidi

svolgevano il loro ufficio, intonando un amabile canto.

Ma il drago, appena colpito da Eracle, era disteso

presso il tronco di un melo, e muoveva soltanto la punta

della coda – dalla testa alla nera spina dorsale giaceva

senza respiro, e dove le frecce avevano contaminato il suo sangue

con la bile amara dell’idra di Lerna, le mosche

si disseccavano sopra le piaghe putride.

Là accanto le Esperidi gemevano forte, celando

la testa bionda dentro le candide mani. (Apollonio Rodio, Le Argonautiche, IV, 1396-1407)

Alla vista di tanto splendore profanato, il cantore Orfeo, che aveva preso parte alla spedizione degli Argonauti, chiese ragione di quello scempio e una delle Esperidi, Egle, rispose:

“… è venuto da noi

un uomo d’orrendo aspetto e violenza; brillavano

gli occhi sotto la fronte spietata, terribile:

era vestito della pelle di un enorme leone, selvaggia,

neppure conciata: portava un robusto tronco d’ulivo

ed un arco, e con le frecce uccise la belva”. (Apollonio Rodio, Le Argonautiche, IV, 1435-1440)

Questa fu la fine del serpente di Era, custode dei pomi d’oro. La dea però non lasciò senza ricompensa la fedeltà del suo guardiano e lo volle nel posto più prestigioso: fra le stelle, nel cielo di settentrione, dove le sue pupille affilate potessero vegliare ancora sul dono di nozze che le aveva portato Gea. Il giardino delle Esperidi costituisce per sua natura un tema caro al mondo dell’arte: l’armonia del luogo, il fascino delle Esperidi, l’incanto dei frutti d’oro sono gli elementi che dominano il contesto dal punto di vista estetico, mentre sensualità e divieto lo caratterizzano dal di dentro attraverso la triade Eden-mela-serpente, la stessa del mondo ebraico e cristiano, segno dunque di un simbolismo antichissimo e diffuso.

Un’immagine dell’undicesima fatica di Eracle si ritrova su un cratere attico a figure rosse dell’inizio del V secolo a.C. (Fig. 4), quello che qualche decennio più tardi si trasformerà nel periodo d’oro di Atene e della Grecia in generale.

Quell’inizio secolo gettò infatti le basi per un memorabile periodo di pace e di prosperità, grazie alla repressione della minaccia persiana con le vittorie dei Greci a Maratona nel 490 a.C. e a Salamina dieci anni dopo.

Il vaso è esposto al Paul Getty Museum di Malibu in California ed è stato attribuito ad un pittore di nome Kleophrades.

Purtroppo la raffigurazione si è conservata in modo frammentario; tuttavia è riconoscibile l’eroe coi suoi inconfondibili attributi iconografici della pelle di leone e della clava.

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Eracle si accinge ad affrontare il serpente Ladone, rappresentato a più teste (se ne possono vedere tre), una caratterizzazione del rettile piuttosto insolita, che di primo acchito evoca il celebre combattimento con l’idra di Lerna, il serpente multicefalo protagonista della seconda impresa di Eracle. Ma che non si tratta dell’idra, lo si comprende osservando che l’animale è attorcigliato al tronco di un albero – da cui fra l’altro pende una mela – e che poco distante si intravede una figura immobile e statuaria che altri non è che Atlante impegnato a sorreggere la volta celeste. Nel decennio 470-460 a.C. viene costruito il tempio di Zeus a Olimpia, città che sta vivendo il suo momento di massimo splendore. Il santuario è il più importante del Peloponneso e Olimpia è meta di assidui pellegrinaggi, oltre che sede dei giochi cui dà il nome.

Dalle guerre coi Persiani le poleis greche sono uscite vittoriose, rinforzate nella loro identità, stato d'animo che nelle città principali, si traduce con l’avvio di opere edilizie di straordinario valore artistico. Il tempio di Zeus a Olimpia può considerarsi a tutti gli effetti l’inaugurazione di questo periodo aureo della Grecia e lo scultore incaricato di decorare l’edificio, noto come il maestro di Olimpia, ha esaltato attraverso i suoi capolavori il nuovo stile della statuaria greca, in transizione dall’arcaismo alla classicità. Le figure e le pose abbandonano la loro rigidità per divenire progressivamente più naturali, i volti sono espressivi e non più astratti e misteriosamente estatici; nel marmo insomma vivono le passioni e il tempio che ospitava la formidabile statua di Zeus, opera di Fidia, è un susseguirsi di testimonianze del cosiddetto stile severo. Fra queste troviamo nel portico occidentale le metope, gli elementi decorativi sottostanti il fregio. Ve ne sono sei per lato, dodici in tutto dedicate al ciclo delle fatiche di Eracle. La nona metopa (Fig. 5), oggi custodita al Museo Archeologico della città, è quella attinente l’undicesima impresa dell’eroe. Come il cratere di Kleophrades anch’essa purtroppo ci è giunta incompleta, tuttavia la scena è assolutamente riconoscibile. I protagonisti sono Eracle, Atlante e Atena. Vi è rappresentata una versione del mito in cui Eracle non coglie personalmente le mele, ma incarica Atlante sostituendolo temporaneamente nel sostegno del cielo.

E [Eracle] giunse da Atlante, nel paese degli Iperborei. Prometeo però gli aveva detto di non andare lui stesso a prendere le mele, ma di mandare Atlante dopo aver preso il suo posto nel sorreggere la volta celeste. Eracle obbedì e si sostituì ad Atlante. Atlante colse tre mele dal giardino delle Esperidi e tornò da Eracle.

(Apollodoro, Biblioteca, II, 5, 11, 283-287)


La lastra di marmo pario illustra proprio il momento in cui il Titano porge le tre mele a Eracle, sulle cui spalle è adagiato un voluminoso cuscino piegato in due, quello che usavano i trasportatori di merci.

Ad aiutare Eracle nello sforzo immane di reggere il firmamento, vi è Atena, priva dei suoi attributi caratteristici (elmo, egida e lancia) ma ugualmente identificabile in quanto dea protettrice dell’eroe.


Al British Museum è custodita invece una bellissima hydria, recipiente per l’acqua, risalente alla fine del V secolo a.C. (Fig. 6). Il vaso attico a figure rosse è conosciuto come l’idria di Meidias e raffigura due episodi mitologici, uno dei quali è quello di Eracle nel giardino delle Esperidi. Non vi è rappresentato nessun momento particolare dell’impresa, ma vengono semplicemente mostrati i protagonisti come se si trattasse di una sorta di presentazione degli attori.

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Si vedono allora il serpente attorcigliato all’albero ed Eracle seduto sulla pelle di leone che si regge all’inseparabile clava; la spada è nel fodero a indicare un momento pacifico. Sta guardando una delle Esperidi, Lipara, che a sua volta ricambia lo sguardo. Alle spalle di Eracle sta Iolao, suo fedele compagno di avventure che, anche se in realtà non prende parte all’undicesima impresa, è stato voluto dal pittore presumibilmente in quanto personaggio appartenente al mito di Eracle (Fig. 7).

E’ interessante notare come le sette Esperidi, tutte in pose di estrema grazia e finemente dettagliate nelle vesti, si distinguano fra le numerose figure per il fatto di tenere sollevato con la mano un lembo della veste, quello sulla spalla come Lipara o quello sulla manica come Crisotemi, l’Esperide che sta per raccogliere una mela dall’albero (Figg. 6-8).

Al 1690 risale la carta celeste del Drago contenuta nell’atlante Firmamentum Sobiescianum dell’astronomo polacco Johannes Hevelius (Fig. 9). La raffigurazione è quella di un animale di fantasia, essendo il corpo quello di un serpente e la testa invece un incrocio fra un rapace e un felino.

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Infine, un dipinto del giardino delle Esperidi dal gusto estatico è quello realizzato dal pittore e scultore inglese Lord Frederic Leighton nel 1892 e conservato a Liverpool nella Lady Lever Art Gallery (Fig. 10).

Immerse in una calda luce ambrata, tre Esperidi giacciono l’una contro l’altra appoggiate a un melo colmo di frutti. Un enorme serpente è avvolto al tronco da cui si cala e cinge la fanciulla posta in primo piano.

Le figlie di Atlante appaiono sognanti e in uno stato di abbandono, sedotte dall’atmosfera voluttuosa di cui è permeato il giardino. Mentre una di esse dorme posando il viso al braccio della sorella, questa porge mollemente il palmo a Ladone senza tuttavia guardarlo, forse perché rapita dalla bellezza delle mele che poco oltre un ramo generoso le offre alla vista; la terza infine, adagiata anch’essa alla sorella con la nuca, interrompe il canto che stava eseguendo con la lira per cogliere uno dei pomi che osserva incantata a labbra dischiuse.

Ilaria Sganzerla


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