Il mese di Novembre nel mito e nell'arte
 

Eridano

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Un nastro leggero vaga sciolto fra alcune delle costellazioni ormai prossime all’emisfero australe o addirittura già di proprietà esclusiva di questa parte di cielo. L’astronomo tedesco Hevelius, nella sua tavola uranografica ha messo ben in evidenza il cerchio dell’equatore visto che la costellazione varca abbondantemente la soglia celeste che immette nella volta stellata del Sud (Fig. 3).

Questo nastro è in realtà un lungo fiume che scorre in Italia e che anticamente si chiamava Eridano. Tutti oggi lo conosciamo col nome di Po e la sua immagine è annoverata fra le costellazioni grazie ad una famosissima e rocambolesca storia che lo ha visto coinvolto nella sua parte finale. L’Eridano infatti accolse le spoglie mortali del figlio del Sole, Fetonte, il quale per la sua incoscienza e impulsività volle a tutti i costi guidare il carro del padre, provocando un vero e proprio disastro cosmico culminato con la sua uccisione ad opera di Zeus. Chi ci racconta nei particolari la vicenda di questo ragazzo è uno scrittore latino che considero unico: il suo stile, le sue immagini, le sue parole possiedono un’intensità ed una poesia, che soltanto da un talento fuori dal comune unito ad un animo dalla spiccata sensibilità possono scaturire. Si tratta di Ovidio, poeta vissuto a cavallo del I secolo a.C. e I secolo d.C., ai tempi aurei dell’imperatore Augusto.

Tutto ebbe inizio in Etiopia, in un tempo leggendario in cui gli abitanti erano bianchi di pelle ed i loro sovrani erano Merope e Climene. Un giorno accadde che il dio Febo Apollo, durante la sua quotidiana traversata del cielo da est a ovest per dare la luce alla Terra, si imbatté nella straordinaria bellezza della regina Climene. Improvvisamente si accorse che di lei non poteva fare a meno e desiderò amarla. Anche la donna rimase rapita al cospetto del dio il cui nome, Febo, significa “lo splendente” e che tale era non solo in virtù del Sole che trasportava sul famoso carro, ma anche perché era il dio della poesia, della musica, il dio nel cui aspetto e nelle cui inclinazioni incarnava il sublime. Fu così che Apollo e la regina etiope si amarono e dal loro amore nacquero le Eliadi, cioè le figlie di Elio – nome greco del Sole – e Fetonte.

Fetonte aveva come amico un altro figlio divino, Epafo, nato dall’unione della dea Iside con Giove, e fu proprio una battuta del coetaneo la scintilla che avrebbe scatenato l’imminente putiferio. Epafo infatti tacciò Fetonte di ingenuità e presunzione per la sua ostentazione di essere il figlio di un dio, che non aveva in realtà mai visto e che per di più sosteneva essere il magnifico Apollo.

Sciocco, tu credi a tutto quello che ti dice tua madre, e vai tronfio di un padre immaginario”. (Ovidio, Metamorfosi, I, 753-754)

Queste le parole di Epafo. Chiunque, a proposito di un tema così importante e delicato quale quello delle origini personali, non tollererebbe mai un simile affronto e desidererebbe dimostrare a tutti con qualsiasi mezzo la propria identità. Così infatti intese fare Fetonte. Corse dalla madre e in preda a rabbia mista a disperazione, la supplicò di dargli un segno affinché avesse la certezza matematica di essere figlio di un dio.

Climene – non si sa se spinta più dalle preghiere del figlio o dall’ira per essere stata messa sotto accusa – levò al cielo tutte e due le braccia e guardando diritto verso il Sole esclamò: “Per questo fulgore splendido di raggi balenanti, che ci vede e ci ode, io ti giuro, o figlio, che tu sei nato da questo Sole che ti sta di fronte, da questo Sole che regola la vita sulla terra. Se quel che dico è menzogna, mai più egli mi consenta di guardarlo e sia questo per i miei occhi l’ultimo giorno. Del resto, non ti ci vorrà molto a trovare la casa di tuo padre. Il luogo dove dimora, e da dove sorge, è vicino alla nostra regione. Se così ti aggrada, vai, e informati da lui direttamente”.(Ovidio, Metamorfosi, I, 765-775)

Fetonte non indugiò e, con il cuore ansioso per l’imminente incontro col padre ancora sconosciuto, si mise in viaggio verso Oriente fino a che, oltrepassata l’India, giunse finalmente alle porte della colossale e altissima residenza di Apollo, un palazzo interamente rivestito d’oro, rame e avorio. Fetonte venne condotto al cospetto del dio ma non poté avvicinarsi più di quel tanto per via della luce accecante che il padre sprigionava. Ecco come si presentò la scena a Fetonte:

Il Sole sedeva, avvolto in un manto purpureo, su un trono scintillante di fulgidi smeraldi. A destra e a sinistra stavano il Giorno e il Mese e l’Anno, e i Secoli, e le Ore disposte a uguale distanza l’una dall’altra; stava la Primavera incoronata di fiori, stava l’Estate, nuda, che portava ghirlande e spighe, e stava l’Autunno imbrattato di uva calpestata, e l’Inverno ghiaccio, con i capelli irrigiditi. (Ovidio, Metamorfosi, II, 23-30)

Apollo era fiero di essere il padre di Fetonte, egli era il simbolo dell’amore che lo univa a Climene, e non gli avrebbe negato nulla pur di tranquillizzare il figlio in merito alla sua discendenza. Il ragazzo aveva un solo desiderio: essere lui per un giorno a dare la luce agli uomini guidando il carro del Sole. Tutto Apollo si sarebbe aspettato fuorché una richiesta del genere, tanto inequivocabile quanto sconsiderata. Che fare? Accontentare il figlio per far fede alla promessa fattagli o rifiutarsi in nome della saggezza che la lunga esperienza gli conferiva? Più volte tentò Febo di dissuadere il figlio, illustrandogli quanto la traversata fosse in realtà una quotidiana impresa che lui, soltanto lui, poteva portare a compimento, e comunque non senza fatica; lui soltanto lui, nemmeno Giove il re degli dèi avrebbe saputo farlo. Mantenere la giusta traiettoria era un compito delicatissimo: la furia dei quattro cavalli che trainavano il cocchio richiedeva una mano forte e salda che li sapesse domare; vi erano poi alcune costellazioni minacciose come il Toro, il Leone e il Granchio che bisognava saper “prendere” per non scatenarne l’ira; ed era importantissimo approdare ad Occidente dopo aver eseguito tutto secondo le regole quando il giorno volgeva al termine, perché sia alla terra che al cielo occorreva dare il giusto calore. In una parola, non ci si poteva permettere di sbagliare. Ma gli avvertimenti furono tutti inutili. Fetonte non ne voleva sapere, e più Febo tentava di persuaderlo, più il ragazzo dubitava di avere discendenza divina. Finché Apollo davanti a quegli occhi per la seconda volta lucidi di rabbia e amarezza, si arrese e, pur con grande preoccupazione, assecondò il figlio. Era nel frattempo giunta l’ora di sorgere…

Allora il padre spalmò un sacro medicamento sul volto del figlio, perché tollerasse le vampe voraci, gli pose sulla chioma i raggi, e di nuovo emettendo sospiri d’ansia dal petto, presagendo sventura, disse:Se puoi seguire almeno questi consigli di tuo padre, evita, ragazzo mio, di spronare, e serviti piuttosto delle briglie. Già tendono a correre di suo: il difficile è frenare la loro foga. E cerca di non tagliare direttamente le cinque zone del cielo. C’è una pista che si snoda obliquamente, con una gran curvatura, e resta compresa entro tre sole zone senza toccare né il polo australe, né l’Orsa dalla parte dell’Aquilone. Passa di lì; vedrai chiaramente le tracce delle ruote. E perché il cielo e la terra ricevano pari e giusto calore, non spingere in basso il cocchio e non lo lanciare troppo in alto nel cielo. Spostandoti troppo verso l’alto, bruceresti le dimore celesti; verso il basso, la terra. A mezza altezza andrai sicurissimo. E bada che le ruote non pieghino troppo a destra, verso il Serpente contorto, o non ti conducano troppo a sinistra, giù verso l’Altare. Tieniti fra l’uno e l’altro. Per il resto mi affido alla Fortuna, che ti aiuti e pensi a te, spero, meglio di quanto sappia fare tu stesso. Mentre parlo, la Notte umida ha toccato la meta segnata sulle coste di ponente. Non ci è permesso indugiare, tocca a noi: l’Aurora, scacciate le tenebre, risplende”. (Ovidio, Metamorfosi, II, 122-144)

Di tutte i suggerimenti paterni, nemmeno uno fece in tempo ad essere seguito. Non appena i cancelli si aprirono infatti, i cavalli si lanciarono all’impazzata come ogni giorno nel cielo immenso, e subito si accorsero che l’auriga non era quello che conoscevano: il suo peso era leggero e le briglie non avevano la tensione e gli strappi a cui erano abituati. In un attimo il carro sobbalzò e sbandò. Fetonte era in preda al panico e non sapeva come tenere i cavalli.

Allora per la prima volta i raggi scaldarono la gelida Orsa, la quale cercò, invano, d’immergersi nel mare ad essa vietato; ed il Serpente, che si trova vicino al polo glaciale e che prima era intorpidito dal freddo e non faceva paura a nessuno, si riscaldò e a quel bollore fu preso da una furia mai vista. Raccontano che anche tu disturbato fuggisti, Boote, benché fossi lento e impacciato dal carro tuo. Quando poi l’infelice Fetonte si volse a guardare dall’alto del cielo la terra che si stendeva in basso, lontana, lontanissima, impallidì, e un improvviso sgomento gli fece tremare le ginocchia, e in mezzo a tutta quella luce un velo di tenebra gli calò sugli occhi.(Ovidio, Metamorfosi, II, 171-181)

Fetonte si pentì di ciò che aveva desiderato e si maledisse per la sua sconsideratezza, ma ormai era troppo tardi. I cavalli lo trascinavano in una folle corsa nel fuoco senza avere la minima idea di dove stessero andando. E così si avventurarono prima troppo in alto fino a cozzare contro le stelle più lontane, poi troppo in basso, troppo vicino alla Terra che diviene tutt’a un tratto una trappola incandescente.

I punti più alti della terra cominciano a prendere fuoco, il suolo perde gli umori, si secca e si fende, i pascoli si sbiancano, alle piante si bruciano le fronde, e la messe inaridita fa da esca al flagello che la divora. Ma questo è niente. Ecco che grandi città van distrutte con le loro mura e gli incendi riducono in cenere intere regioni con le loro popolazioni. (…) E così Fetonte vede la terra accesa da tutte le parti, e non resiste più a tutto quel calore (…). (Ovidio, Metamorfosi, II, 210-228)

Quella traversata maledetta avrebbe cambiato per sempre i connotati della madre terra, dando a determinati tratti le sembianze che conosciamo oggi. Per esempio,

Dicono che fu allora che il popolo degli Etiopi, per l’affluire del sangue a fior di pelle, divenne di colore nero; fu allora che la Libia, evaporati tutti gli umori, divenne un deserto (…). Il Nilo fugge atterrito ai margini del mondo e nasconde il capo, che non si è più riusciti a trovare; le sue sette foci restano asciutte, polverose: sette letti senz’acqua. (Ovidio, Metamorfosi, II, 235-256)

Lo sconvolgimento poi non fu soltanto della geografia terrestre, ma anche della gerarchia cosmica che quel giorno fu del tutto sovvertita: per la prima volta infatti la luce del Sole giunse là dove era proibito illuminare, nelle profondità del Tartaro, il regno dei morti custodito dai sovrani Ade e Proserpina.

Superfluo raccontare ciò che accadde al mare e ai suoi pesci; l’acqua non abitava quasi più la terra e tutte le sue forme di vita, dalle piante agli uomini, stavano scomparendo per sempre, inghiottiti dal fuoco o dal suo calore. Ma questo non poteva permetterlo la madre terra! E così, in uno sforzo al limite delle energie, implorò Giove affinché mettesse fine a quella maledizione.

Allora il padre onnipotente, chiamati a testimoni gli dèi (compreso il Sole che aveva prestato il carro) che tutto sarebbe perito di morte crudele se non interveniva, salì in cima alla rocca da cui suole far calare sulla terra i banchi di nubi, da cui fa rimbombare i tuoni e vibra e scaglia le folgori. (…). Tuonò, e librato un fulmine all’altezza dell’orecchio destro, lo lanciò contro il cocchiere sbalzandolo via dal carro e dalla vita e arrestando l’incendio con una spietata fiammata. (…). Fetonte, con la fiamma che divora i capelli rosseggianti, precipita su se stesso e lascia per aria una lunga scia, come a volte una stella può sembrare che cada, anche se non cade, giù dal cielo sereno. Finisce lontano dalla patria, in un’altra parte del mondo, nel grandissimo Po, che gli deterge il viso fumante. (Ovidio, Metamorfosi, II, 304-324)

Questa fu la fine di Fetonte che volle guidare il carro del Sole.

Ma la storia in verità non finisce qui. Nonostante ciò che era successo infatti, nessuno odiò mai quel ragazzo. Anzi, sia il padre, che la madre, che le sorelle e le ninfe chiamate Naiadi lo piansero a lungo ai bordi dell’Eridano. Ed in quella circostanza accadde che le rive del Po si orlarono dei caratteristici pioppi che da allora lo accompagnano nel suo lungo tragitto. Esse erano spoglie ma poi, mentre le sorelle si battevano il petto in un pianto ininterrotto, i loro corpi si trasformarono in alberi, dapprima i piedi e poi su fino ai capelli, che divennero verdi fronde. Alle Eliadi rimase solo la bocca per chiamare la madre e annunciarle l’inatteso prodigio; finché la corteccia non le privò per sempre anche della parola, e allora dal legno fuoriuscirono lacrime di una sostanza nuova: l’ambra, che al calore del sole si indurì e cadendo nel fiume, venne trasportata dalla corrente. E le metamorfosi contagiarono anche un caro amico di Fetonte che, come le Eliadi, stava piangendo in riva al Po l’audace figlio del Sole. Si chiamava Cicno e tutt’a un tratto vide il suo corpo e trasformarsi in quello di un uccello, un uccello mai esistito fino a quel momento: il cigno.

Di fronte ad una favola tanto coinvolgente, l’arte non poteva mancare l’appuntamento. Ed infatti, la storia di Fetonte è stata celebrata da moltissimi artisti che, oltre ad avere una sostanziosa risorsa per manifestare il loro genio, ne approfittarono per esprimere attraverso l’arte, a cosa conduce la superbia umana quando pretende di misurarsi con la potenza divina. Oppure, un’altra interpretazione è quella della rovina a cui va incontro il giovane sprezzante che disdegna i consigli di chi è più vecchio e ha più esperienza di lui, in questo caso il padre Apollo.

Fra i tanti dipinti, ho scelto cinque capolavori di maestri di grosso calibro come Nicolas Poussin, Peter Paul Rubens, Guido Reni, Johann Liss e Michelangelo.

Dei cinque artisti, il francese Poussin è l’unico che non ha rappresentato il mito nel suo tragico momento culminante, ossia quando Fetonte viene folgorato e cade nell’Eridano. Il pittore ha voluto invece raffigurarlo quando chiede al padre di poter guidare il carro. Il suo dipinto (Fig. 4) ricalca in molta parte i versi di Ovidio: il ragazzo è inginocchiato davanti al Sole, il quale è seduto sul suo trono d’oro raffigurato sottoforma di fascia zodiacale, come si nota dai segni incisi. Attorno a lui sono chiaramente riconoscibili le stagioni: alla sua destra “stava la Primavera incoronata di fiori”, alla sinistra di Fetonte invece “stava l’Estate, nuda, che portava ghirlande e spighe”, addormentato ai piedi di Apollo ecco “l’Autunno imbrattato di uva calpestata”, e per finire, infreddolito e tremante, alle spalle di Fetonte siede “l’Inverno ghiaccio, con i capelli irrigiditi”. Avanza alato verso il Sole suonando il flauto di Pan, Euro, il vento che nasce a Oriente. Fetonte invece sta chiedendo il carro – visibile solo in parte – come si comprende dal braccio sinistro con cui lo indica, mentre il padre, attraverso l’eloquente gesticolazione, tenta di dissuaderlo spiegandogli la pericolosità della richiesta. Sullo sfondo a sinistra si riconosce Teti che, nel racconto di Ovidio, è colei che apre i cancelli quando Apollo deve partire. Una delle Ore è invece incaricata di aggiogare i cavalli, dei quali se ne vede uno.

Questo capolavoro di Nicolas Poussin dalle dimensioni imponenti di 122x153 cm risale al 1635 circa ed è visitabile a Berlino allo Staatliche Museen.

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La scena si carica di violenza ed ogni punto di riferimento viene scardinato nell’apocalittica rappresentazione di un altro grande della pittura, il fiammingo Peter Paul Rubens (Fig. 5). Il quadro si trova a Washington nella National Gallery Of Art ed è stato composto negli anni 1604/1605 per poi essere probabilmente rielaborato negli anni 1606/1608. Qui Fetonte non è il solo protagonista del dipinto ma, in preda al panico, vi sono coinvolte anche le Ore e le Stagioni, le prime raffigurate con ali di farfalla. I cavalli sono in balìa della furia più totale, mentre Fetonte, colpito a morte dal fulmine di Zeus, è sbalzato dal carro e inizia la sua lunga caduta nell’aria rovente. Tutto è fuori controllo, salvo il fulmine del padre degli dèi che, come una potente e salvifica luce, interviene a ripristinare l’ordine cosmico.

Sul soffitto della Sala d’Onore di Palazzo Zani a Bologna, si può ammirare la caduta di Fetonte dipinta dal pittore bolognese Guido Reni nel 1599 circa (Fig. 6). Il famoso artista quando dipinse l’affresco, non era ancora così celebre come sarebbe diventato in seguito. Aveva solo ventiquattro anni, ma vantava collaborazioni importanti con la famiglia Carracci e con l’architetto Ambrosini, entrambi nomi di rilievo nel capoluogo emiliano del XVI secolo, e la nobile famiglia Zani proprietaria di questo bel palazzo, gli commissionò l’opera del Fetonte. Ecco allora che guardando il soffitto della sala, il ragazzo sta precipitando verso l’osservatore mentre i bianchi cavalli si dividono come per aprirgli la strada verticale.

Lo sfondo è un cielo ferito dalla folgore di Zeus e dalle fiamme incautamente sperperate, che abbracciano Fetonte morente. In basso a sinistra si vede invece un pezzo di una ruota del carro ed il cielo azzurro là dove Fetonte l’ha risparmiato.

Avvicinandoci di più invece alla figura dell’Eridano, abbiamo un paio di soggetti in cui l’artista ha ritratto anche il fiume.

Uno è il dipinto di Johann Liss, risalente all’inizio del XVII secolo e custodito alla Royal University di Londra (Fig. 7). Qui la scena racchiude tutti i particolari presenti nel racconto di Ovidio: “Fetonte, con la fiamma che divora i capelli rosseggianti, precipita su se stesso e lascia per aria una lunga scia”. A terra osservano spaventate e pronte a cercare riparo, le Naiadi d’Occidente, le ninfe che abitavano il fiume, visibile insieme al suo corso tortuoso e ancora privo dei pioppi che di lì a poco l’avrebbero incorniciato.

Sdraiato a destra il vecchio che si vede è proprio Eridano che, come è consuetudine della mitologia, viene antropomorfizzato.

Per finire, c’è una bellissima bozza del grande Michelangelo, che, come in molte altre occasioni, disegnò per l’amico Tommaso Cavalieri (Fig. 8). Si tratta come ho detto di una bozza, in quanto Michelangelo prima di finirlo voleva sapere dal Cavalieri se era di suo gradimento fatto così o se doveva rappresentare la scena in altro modo. Questo è il contenuto delle righe scritte alla base del foglio.

Il disegno è estremamente chiaro e suggestivo: partendo dall’alto, vediamo Zeus in groppa alla sua aquila che scaglia il fulmine letale sul giovane Fetonte, il quale è violentemente

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disarcionato e inizia a precipitare a testa in giù verso il suolo. Anche i quattro cavalli di Apollo subiscono il contraccolpo del fendente di Giove e seguono Fetonte nella sua caduta. A terra invece sono raffigurate le sue sorelle, le Eliadi, còlte nell’attimo in cui si stanno trasformando in pioppi: la corteccia fascia impietosa le loro gambe, le dita divengono lunghi rami e la metamorfosi le blocca in posizioni innaturali e sofferenti. In piedi a destra sta invece l’amico Cicno nei suoi ultimi istanti da essere umano; mentre sdraiato a sinistra e unico esente da eventi traumatici, osserva impassibile la scena Eridano, riconoscibile dalla brocca d’acqua che tiene nella mano destra. I fiumi infatti, quando vengono personificati, sono sempre raffigurati con in mano una brocca da cui esce l’acqua, attributo inconfondibile per l’identificazione. “La caduta di Fetonte” di Michelangelo risale al 1533 ed è visitabile al British Museum di Londra.

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Triangolo

 

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Non v’è dubbio che aprendo la finestra al freddo cielo del nord, esso desti la nostra ammirazione esibendo un manto fulgidamente ricamato dei personaggi di una storia famosa come quella di Perseo e Andromeda: i due amanti dominano vittoriosi il soffitto di stelle insieme ad altri personaggi del mito quali Cefeo, Cassiopea e Pegaso. Poco distante poi veglia l’Ariete che, spogliato del suo pelame d’oro, racconta della lunga avventura degli Argonauti diretti verso la Colchide alla sua ricerca. In un contesto mitologico tanto illustre, di certo le tre timide stelle del Triangolo faticano a catturare gli sguardi dei contemplatori del cielo. Nel loro apparente anonimato paiono quasi volersi stringere vicine e giustificare così le ridotte dimensioni della costellazione che formano.

La densa zona mitica è ben rappresentata dalla tavola che l’astronomo polacco Johannes Hevelius ha dedicato al Triangolo trecento anni fa or sono (Fig. 9 ). In essa sono raffigurate anche due delle cosiddette “costellazioni scomparse”, ossia quelle costellazioni escluse dalle 88 designate ufficialmente nel 1922 dall’Unione Astronomica. Si tratta del Triangolo Minore e della Mosca Boreale. Come si vede, Andromeda, Perseo e l’Ariete chiudono tutt’attorno il Triangolo insieme a uno dei due pesci dell’omonima costellazione, anch’essa non privilegiata dinanzi alle prime citate. Eppure anche le poche fiaccole notturne del Triangolo, che Hevelius ha disegnato sottoforma di squadra, hanno qualcosa da rivelare; talvolta sono simboli che attraverso di esse acquistano la forza della luce, talaltra affiora il profilo di

terre che hanno visto nascere civiltà alle quali dobbiamo la nostra cultura e l’incanto delle loro opere eterne.

Triangolo in greco si dice “deltotón” e delta è proprio la lettera dell’alfabeto greco rappresentata col segno triangolare. Si tratta di una lettera prestigiosa perché è l’iniziale di Zeus, il supremo signore del pantheon ellenico, che in greco è “Diòs” (Διός), il “divino”, da cui noi abbiamo evidentemente tratto la parola “Dio”. Se il cielo fosse un puledro e le costellazioni la sua pezzatura, il Triangolo sarebbe il marchio del padrone. Zeus infatti era il sovrano proprio di quella parte del cosmo, e le tre stelle ricordano i regni in cui esso fu diviso quando gli uomini ancora non erano stati creati: cielo, oceano, inferi. Poseidone, il dio di uno dei tre mondi, racconta attraverso il canto di Omero di quando suo fratello Zeus, detronizzato il padre Crono, vinti i Titani e i Giganti ribelli, stabilì l’ordine dell’universo, trasformandolo da Caos in Cosmo:

Tre sono i figli di Crono che Rea generò, Zeus, io, e terzo l'Ade signore degli inferi. E tutto in tre fu diviso, ciascuno ebbe una parte: a me toccò di vivere sempre nel mare canuto, quando tirammo le sorti, l'Ade ebbe l'ombra nebbiosa, e Zeus si prese il cielo fra le nuvole e l'etere; comune a tutti la Terra e l'alto Olimpo rimane.(Omero, Iliade, XV, 187-193)

E leggendo la testimonianza del mitografo greco Apollodoro, si scopre che l’attribuzione dei tre regni era in realtà già stata designata prima del sorteggio di Zeus. Il mito vuole infatti che per sconfiggere i Titani, i Ciclopi, altre creature primordiali figlie di Gea (la Terra) e di Ouranós (il Cielo), dessero armi dal significato non casuale a Zeus, Poseidone e Ade, rispettivamente gli dèi latini Giove, Nettuno e Plutone:

Allora i Ciclopi danno a Zeus il tuono, il lampo e il fulmine, a Plutone l'elmo, a Poseidone il tridente. (Apollodoro, Biblioteca, I, 2, 7)

Tuono, lampo e fulmine sono naturalmente forze del cielo, mentre l’elmo per la sua caratteristica di coprire il volto rendendolo invisibile, allude agli inferi, immaginati sottoterra e introvabili finché si è in vita; infine il tridente è l’arpione usato nella pesca, arma quindi legata al mondo marino.

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Un’immagine di Zeus nel pieno della sua potenza è quella realizzata dal pittore e architetto Giulio Romano vissuto nella prima metà del XVI secolo (Fig. 10 ). Sul soffitto della Sala dei Giganti di Palazzo Te a Mantova, il nuovo sovrano dell’universo è in procinto di scagliare uno dei suoi fiammeggianti fulmini sui Giganti insorti contro gli dèi. Stando all’interno della stanza si rimane impressionati dal fermento delle figure gigantesche affrescate a tutta parete, ognuna delle quali a sua volta si fa scenario di distruzione con colonne che si spezzano e muri che crollano (Fig. 11 ).

Di Ade invece possiamo vedere l’elmo nella scultura del Perseo di Benvenuto Cellini vissuto nella seconda metà del XVI secolo (Fig. 12 ). La statua si trova nella Loggia dei Lanzi in Piazza della Signoria a Firenze. Sul retro dell’elmo indossato da Perseo, emerge un volto: è quello dello stesso Cellini che si è voluto identificare con Ade. Attraverso questo particolare, lo scultore suggerisce che non si tratta di un elmo qualsiasi, bensì di quello speciale del signore degli inferi, che aveva la proprietà di rendere invisibili e che le ninfe donarono che a Perseo per sconfiggere la Gorgone Medusa.

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Infine, Poseidone è ben raffigurato col suo tridente su un calice attico a figure rosse risalente agli inizi del V secolo a.C. e attribuito al pittore Aegisthus (Fig. 13 ). Il dio siede ieratico sul trono pronto per essere servito dalla dea Iris; ella gli verserà del vino nella cosiddetta kylix, l’apposita coppa bassa e ampia usata per questa bevanda. Il vaso è custodito negli Stati Uniti, alla Yale University Art Gallery di New Haven nel Connecticut.

Ma il Triangolo secondo altre interpretazioni è una terra: quella egiziana alla foce del Nilo, ovvero il Delta del Nilo, come immagina il poeta romano Manilio, mentre passa in rassegna le costellazioni:

Dopo di lui [Perseo] segue nella serie, insistendo su di un lato diseguale, giacché per tre faci accostate si distingue sui due eguali, il segno triangolare del Delta, chiamato per l'assomigliargli. (Manilio, Astronomica, I, 351-354)

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E infine in queste tre stelle altri hanno scorto l’inconfondibile sagoma della Sicilia, il cui nome originario non a caso era Trinacria, dal greco “treis” = “tre” e “àkra” = “promontori”. La Sicilia era infatti l’isola dai tre promontori: Capo Peloro a nord-est vicino a Messina, Capo Boéo o Lilibeo a ovest vicino a Marsala e Capo Passero o Capo Spartivento a sud-est vicino a Siracusa (Fig. 14). A questo punto possiamo ben concludere che la piccola costellazione del Triangolo, di primo acchito un’intrusa in mezzo a celebrità come Andromeda, Perseo e l’Ariete, occupa invece un meritato posto d’onore: occorre forse soltanto propagandarla un po’ di più.

 

Cavallino

 

Il Cavallino può considerarsi la costellazione più moderna fra quelle antiche. Il primo a parlarne fu infatti un astronomo poco conosciuto, tal Gemino da Rodi, vissuto nel I secolo a.C., recente dunque rispetto a Eudosso, Arato ed Eratostene, i primi astronomi-mitografi vissuti nel IV e nel III secolo a.C.

Negli anni dal 141 al 120 a.C. poi l’isola di Rodi aveva ospitato il grande Ipparco da Nicea che lì vi trascorse l’ultima parte della sua vita. Gemino, nativo dell’isola dove Ipparco compì gran parte dei suoi studi e delle sue osservazioni, fece risalire a lui la piccola costellazione del Cavallino e quattro secoli dopo, nel II secolo d.C., la troviamo annoverata ufficialmente da Tolomeo fra le 48 del suo Almagesto. In questa opera la costellazione non ha ancora il nome moderno di Cavallino, ma è chiamata Protomè Ippon, dove protomè in greco significa “testa”, ma nell’accezione di busto, in accordo con la figurazione che ne viene data.

Prima di Gemino, c’era solo la costellazione del Cavallo che solo più tardi, forse nel Medioevo, cambiò il nome in Pegaso, in accordo col mito che nel frattempo la tradizione aveva privilegiato.

Fra le versioni mitiche associata al Cavallo, oltre a quella del destriero di Bellerofonte, vi era descritta anche la storia che sarebbe poi stata di pertinenza esclusiva del Cavallino, così che la piccola costellazione venne a rappresentare ciò che era in origine la figura del Cavallo, ossia un destriero senza le ali. Il Cavallino infatti, ad eccezione delle ali, è la copia in miniatura di Pegaso con la sua rappresentazione frontale e solo fino al petto (Fig. 11).

Ma chi si nasconde dietro la costellazione più piccola dell’emisfero boreale? Si rimane quasi certamente sorpresi nell’apprendere che innanzitutto non si tratta di un cavallo maschio ma di una femmina e che inoltre l’animale è il frutto della metamorfosi di una fanciulla.

Il suo nome era Ippe, un nome che come spesso accade nella mitologia greca, conteneva il suo destino visto che cavallo in greco si dice ippòs. Ippe era la figlia del centauro Chirone, il più saggio della razza ibrida conosciuta per la sua aggressiva istintività. Nonostante il padre fosse un centauro, Ippe doveva avere sembianze completamente umane perché si unì a Eolo, da confondersi però col dio dei venti. Questo Eolo era il re della Tessaglia e il suo nome è divenuto

famoso in quanto fu il capostipite della stirpe greca degli Eoli. Suoi fratelli erano Xuto e Doro, quest’ultimo fondatore invece della stirpe dorica. Si dice che Eolo abbia sedotto Ippe e dall’unione con lui, la giovane rimase incinta. Ma Ippe era devota ad Artemide, la dea della caccia che ammetteva al suo seguito solo fanciulle vergini. Così, fin quando il ventre lo permetteva, la figlia di Chirone non ebbe difficoltà a tacere la gravidanza, ma quando il gonfiore si fece sospetto, la ragazza decise di scappare per non essere scoperta dal padre e ancor meno dalla dea. Chirone viveva in una grotta del monte Pelio, in Tessaglia, ed era rinomato, unico fra i centauri, per le sue virtù di saggezza e conoscenza delle arti. Non avrebbe mai permesso che l’onta della figlia macchiasse il suo nome. Per questo Ippe fuggì nei boschi intricati della regione tessalica. Ma non appena si accesero le prime stelle senza che la figlia avesse fatto ritorno alla grotta, Chirone si mise al galoppo setacciando tutti i dintorni. Conosceva quei boschi come la rugiada sulle felci, eppure di Ippe nessuna traccia.

Trascorsero tutti i nove mesi della gestazione senza che il centauro la potesse riabbracciare. In preda alla disperazione e temendo ormai il peggio, non smise tuttavia di cercarla. Chirone in realtà non la vide mai più. Quando infatti giunsero le doglie, Ippe si trovava in una piccola radura nascosta da un saliscendi di rocce; con le lacrime che le rigavano la pelle, pregava gli dèi mentre dava alla luce una bambina: “Trasformatemi, o dèi onnipotenti… – sussurrava – Non lasciate che il padre mio conosca il mio disonore, se mai amarsi possa dirsi disonore. Melanippe è il nome che voglio dare a questa creatura, il nome che avrà sua madre quando esaudirete la mia preghiera”. Gli immortali ascoltarono le parole di quella voce spezzata e, mentre ancora singhiozzava, fu avvolta in un turbinio luminoso e sollevata nel firmamento dove apparve sottoforma di giumenta, come lei desiderava. Melanippe infatti significa cavallo nero, proprio come le sembianze che aveva assunto e come il tenue splendore delle sue poche stelle.

La costellazione del Cavallino inoltre sorge quando quella del Centauro che rappresenta Chirone, tramonta. Così gli dèi esaudirono il desiderio di Ippe di non essere mai scoperta dal padre. Il mito di Ippe e Chirone non è sicuramente fra quelli più conosciuti e si rimane probabilmente sorpresi di trovarlo addirittura rappresentato sulla volta stellata a discapito di tante altre storie ben più note. Eppure nei tempi antichi, questa favola doveva godere di una discreta fama. Le uniche due fonti in nostro possesso che parlano del mito legato alla costellazione, iniziano entrambe il racconto citando la tragedia di Euripide intitolata Melanippe. L’ultimo grande tragico greco scrisse addirittura due tragedie sulla figlia di Ippe: “Melanippe liberata” e “Melanippe filosofa”, purtroppo andate entrambe perdute. Ciò significa che al tempo il mito era presente nella memoria collettiva e degno di essere rappresentato a teatro come nel firmamento.

Il più antico dei racconti sui miti che avvolgono la costellazione del Cavallino – ancora però indistinta da quella di Pegaso – è quello dell’astronomo Eratostene, nato a Cirene nel 275 a.C. A parte qualche variante rispetto al racconto posteriore di Igino, rende conto della posizione riservatale in cielo e del motivo per cui è rappresentata frontalmente e per metà.

Euripide dice nella “Melanippe” che era Ippe figlia di Chirone; fu sedotta da Eolo con l’inganno e come il ventre si ingrossava per la gravidanza, si rifugiò sui monti e là si trovava, in preda alle doglie del parto, quando sopraggiunse suo padre che la cercava ed ella pregò, una volta catturata, di essere trasformata per non essere riconosciuta e diventò un cavallo. Per la sua pietà dunque e per quella di suo padre, Artemide la pose fra le stelle, in una posizione da dove non è visibile al Centauro. Si dice infatti che il Centauro è Chirone. La parte posteriore del suo corpo non è visibile, in modo che non si possa riconoscere che si tratta di una femmina. (Eratostene, Epitome dei catasterismi, 18)

La seconda descrizione del gruppo di stelle che ci è pervenuta è quella dell’astronomo romano Igino vissuto alla corte di Augusto fra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. Al pari di Eratostene, anch’egli ne parla citandola come una delle versioni mitiche legate alla costellazione del Cavallo e anch’egli inizia la narrazione partendo dalla tragedia euripidea.

Euripide, nella “Melanippe”, racconta che Ippe, figlia del centauro Chirone, si chiamava originariamente Teti. Cresciuta sul monte Pelio si era dedicata con passione alla caccia, ma un giorno si lasciò sedurre da Eolo, figlio di Elleno e nipote di Giove, e restò incinta. Avvicinandosi la data del parto, fuggì nel bosco perché il padre, che la credeva ancora vergine, non la vedesse mentre gli metteva al mondo il nipote. Così, quando egli cominciò a cercarla, pregò gli dèi onnipotenti, affinché il parto avvenisse al riparo del suo sguardo. Gli dèi la esaudirono e, dopo aver partorito, la posero fra le stelle trasformata in giumenta. (Igino, Astronomica, 2.18)

Se il teatro rese omaggio al mito di Ippe attraverso la tragedia euripidea della figlia Melanippe, l’arte al contrario fu più parca nei confronti della leggenda. Dall’antichità infatti non ci sono giunte pitture vascolari o altri tipi di reperti artistici inerenti la metamorfosi di Ippe in giumenta o, se ci sono, non hanno riscontrato abbastanza successo da divenire pezzi di rilievo nelle collezioni museali. Molto più ricca è invece l’iconografia dedicata a Chirone, ma per vedere la metamorfosi di Ippe in giumenta non resta che affidarsi ai cataloghi stellari come quello di Hevelius in cui le costellazioni sono rappresentate nella loro versione mitica.

Nel 1690 fu pubblicata a Danzica l’opera dell’astronomo polacco contenente le tavole delle costellazioni e il Cavallino compare nella stessa lastra del Delfino e della Freccia, essendo i tre gruppi di stelle piccoli e vicini fra loro (Fig. 12). Come si può notare, del Cavallino-Ippe è raffigurata solo la testa che si trova affiancata a quella di Pegaso e, nella pagina dedicata invece a quest’ultima costellazione, si può apprezzare meglio il particolare dell’assenza delle ali.


Figure:

  • Fig. 3: dall’Uranographia di Hevelius
  • Fig. 4: upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/e/e3/Nicolas_Poussin_Helios_and_Phaeton_with_Saturn_and_the_Four_Seasons.jpg
  • Fig. 5: www.nga.gov/fcgi-bin/timage_f?object=71349&image=0&c=gg45
  • Fig. 6: archivio
  • Fig. 7: upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/0/06/Johann_Liss_006.jpg
  • Fig. 8: www.britishmuseum.org/explore/highlights/highlight_image.aspx?image=com988.jpg&retpage=21653
  • Fig. 9: http://www.atlascoelestis.com/Hev%2028.htm
  • Fig. 10, 11, 12: archivio
  • Fig. 13: http://www.theoi.com/Gallery/K2.1.html
  • Fig. 14: da Google Maps

Bibliografia:

  • Ovidio, Metamorfosi, Einaudi, 1999
  • Apollodoro, I Miti Greci, Fondazione Lorenzo Valla/Arnoldo Mondadori Editore, 1996
  • Caio Giulio Hygino, Fabulario delle stelle, Ed. Sellerio, 1996
  • DELI – Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, Seconda Edizione, Ed. Zanichelli, 1
  • Dizionario di mitologia greca e latina, Ed. UTET, 2002
  • Manilio, Il Poema degli Astri, Volume I, Libri I-II, Ed. Fondazione Lorenzo Valla / Arnoldo Mondadori, 2001
  • Omero, Iliade, Einaudi 1989

Internet:

  • http://www.grifasi-sicilia.com/trinacria.htm

 

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