di Troia, Troo da cui prese il nome la stirpe dei Troiani. Come ci racconta Omero:
e nacquero a Troo tre figli senza macchia, Ilo, Assàraco e Ganimede simile ai numi, che fu il più bello fra gli uomini mortali.(Omero, Iliade, XX, 231-233) |
Al giorno d’oggi Ganimede sarebbe il Mister Universo di turno. Proprio per la sua bellezza, Zeus lo volle accanto a sé nell’Olimpo, con la funzione di coppiere degli dèi (Fig. 5). E naturalmente l’assunzione alle sedi celesti comportava il dono dell’immortalità. La storia di come Ganimede giunse fra gli dèi ricevendo l’incarico di servire loro il nettare, la bevanda divina che assicurava l’immortalità, e l’ambrosia, il cibo degli dèi, è illustrata dallo stile immancabilmente brillante di Ovidio:
Ci fu una volta che il re degli dèi s’infiammò d’amore per il frigio Ganimede, ed ebbe l’idea di trasformarsi in una cosa che, una volta tanto, gli parve più bella che essere Giove: un uccello. Ma, fra tutti gli uccelli, non si degnò di trasformarsi che in quello capace di portare i fulmini, le armi sue. Detto fatto: battendo l’aria con false penne, rapì il giovinetto della stirpe di Ilo, che tuttora gli riempie i calici e gli serve il nettare, con rabbia di Giunone. (Ovidio, Metamorfosi, X, 155-161)
La storia è tutta qua. Ma l’episodio suscitò in campo artistico un interesse che, di primo acchito non ci si aspetterebbe di fronte a una vicenda che tutto sommato è piuttosto comune nella mitologia greca: il rapimento di una creatura bellissima da parte di un dio che se ne è innamorato. Pensiamo a Persefone – Proserpina per i Romani – rapita dal dio degli inferi Ade, oppure alle figlie di Leucippo rapite dai Dioscuri Castore e Polluce, o ancora ad Europa rapita da Zeus trasformatosi in toro.
Prima di passare alla rassegna artistica però, ritengo doveroso gettare luce sulla valenza ed il significato di questo mito, spesso preso di mira per ridicolizzare od esaltare il rapporto omosessuale. Quello che pochi sanno è che in questa storia l’omosessualità intesa come scelta o tendenza sessuale, non c’entra praticamente nulla.
Nella Grecia arcaica, prima della nascita della polis – quindi prima del VII-VIII secolo a.C. – il passaggio all’età adulta da parte di un ragazzo maschio avveniva attraverso un rito di passaggio, che consisteva in una pederastia iniziatica. Per la nostra cultura, questa parola suona mostruosa ma, come al solito, dobbiamo calarci nel contesto di allora prima di inorridirci. La parola “pederastia” deriva dal greco paidòs che è il genitivo della parola pais e che significa “ragazzo” ed erastès che significa “amante”. I “pederasti” erano dunque gli “amanti dei ragazzi”, ma attenzione: non si trattava né di stupratori, né di perversi.
Il pais, singolare di paides, era una fase della crescita, in particolare era legata all’organizzazione della comunità che non era ancora di tipo politico, ma si basava su classi di età. Come noi suddividiamo le età in infanzia, adolescenza, età adulta e via dicendo, i Greci avevano parole diverse per indicare le varie fasce di età di una persona; categorie che, proprio perché identificavano un membro della comunità, erano molto articolate. Il neonato infatti era chiamato brephos, il bambino che prende il latte materno è invece paidion, quando cammina è paidarios, fino a prima di andare a scuola è paidiskos, quando comincia ad andare a scuola è pais e, dopo altre età intermedie, a diciotto anni è efebos. Seguono le età successive che in questa sede non interessano.
Il pais è quindi il bambino che inizia la scuola, cioè si inizia ad essere pais a sei-sette anni. Quell’età naturalmente non è ancora adatta a trasformare un bambino in un uomo ed infatti l’iniziazione avveniva di norma a partire dai dodici anni fino ad un massimo di diciassette. Anche in questo caso, è bene non fare paragoni con la nostra realtà; si ricordi che a quel tempo, le ragazze si sposavano circa a quattordici-quindici anni. Quella che per noi oggi è una fascia adolescenziale, allora era il periodo di passaggio all’età adulta. Ciò che accadeva fra i dodici e i diciotto anni era che il ragazzo veniva allontanato dalla famiglia e affidato ad un adulto, il quale svolgeva il ruolo di pedagogo, ossia doveva insegnargli tutte le virtù, morali e politiche, che facevano di un maschio un uomo, e questa educazione prevedeva anche il rapporto sessuale in quanto – si credeva – attraverso di esso veniva “trasferita” la virilità al ragazzo. L’adulto che si occupava dell’educazione del ragazzo si chiamava erastes, cioè amante.
E dopo? Una volta divenuto adulto, il ragazzo doveva prendere moglie e prima o poi divenire anch’egli erastes. L’omosessualità era quindi solo una fase della vita e soprattutto quello che bisogna sapere, è che l’opposizione non si giocava in termini di omosessualità/eterosessualità, bensì in termini di attività/passività. L’uomo, il maschio, detentore del potere e responsabile delle sorti della comunità prima e della città poi, doveva essere “attivo”, perché il ruolo a cui era destinato necessariamente lo richiedeva. Il passaggio quindi all’età adulta era un passaggio dalla passività alla attività.
Alla luce di tutte queste considerazioni, è facile allora interpretare il mito antichissimo di Giove e Ganimede: Giove altri non è se non l’erastes, l’amante, colui che educherà il suo pais, Ganimede, affinché diventi un uomo. Il mito è dunque il simbolo e l’origine dell’iniziazione, maschile, che segna il passaggio dall’età adolescente a quella adulta. L’argomento, come si può immaginare, è molto complesso e delicato; la brevissima trattazione ora data, è volta a collocare nella giusta dimensione questo mito che, raccontato ai nostri tempi e senza un’adeguata conoscenza dell’etica sessuale nell’Antica Grecia, viene percepito e giudicato secondo criteri che non sono quelli appropriati: il bambino maschio sapeva che un giorno sarebbe stato “iniziato” ad essere uomo attraverso un rapporto con un adulto che era sia educatore che amante. Che poi l’esperienza sessuale potesse essere traumatica è un altro discorso, quel che è importante sapere è che la pederastia faceva parte del percorso educativo dei ragazzi. Non vi era invece per le ragazze nessun rito di passaggio perché esse, come è immaginabile, erano escluse dalla società in termini politici; in una società esclusivamente maschile, la loro funzione era solo procreativa.
E passiamo ora all’arte. Come dicevamo, il rapimento di Ganimede da parte di Zeus che, nella letteratura a differenza degli altri racconti, è stato narrato in modo così breve e senza dettagli particolari sullo stato d’animo dei protagonisti, ha invece infiammato la fantasia degli artisti fin dai tempi più antichi; non solo, ma il soggetto ha continuato a riscuotere un successo enorme anche nei secoli successivi, tanto che lo troviamo rappresentato fino al XIX secolo grazie al neoclassicismo. Numerosissime sono state le raffigurazioni del giovane o del suo rapimento sia nella pittura che nella scultura. E i nomi degli artisti sono altisonanti: fra i pittori troviamo Michelangelo, Rembrandt, Correggio, Rubens, Moreau, mentre abbiamo sculture del calibro di Cellini e Thorvaldsen, per citare solo i più famosi. Ma, come dicevamo, la rappresentazione non manca nemmeno nell’antichità, ai tempi della Grecia classica.
Prendiamo per esempio il gruppo in argilla del 480-470 a.C. rinvenuto in un tempio a Olimpia (Fig. 6). Zeus, il volto sorridente profuso dall’estatica serenità tipica della statuaria greca, sta correndo con in braccio un giovanissimo Ganimede che, a sua volta, tiene un gallo, il dono tradizionale di un ragazzo.
Questa scultura è importante per il periodo artistico in cui si inserisce. E’ infatti uno dei primi esempi di progresso dell’arte greca che passa dallo stile arcaico, più rigido nella rappresentazione del movimento e meno dettagliato nei lineamenti del corpo, a quello classico che si distingue in questo caso per la posa con una gamba leggermente flessa ed il peso del corpo spostato su di essa, rendendo così meglio l’idea del movimento. Anche il corpo viene rappresentato con maggior ricchezza di particolari grazie al panneggio delle vesti che ne lascia trasparire la muscolatura. Lo stile classico infatti punta tutto sulla bellezza e l’energia del corpo umano, per questo è importante la scelta di inaugurare il nuovo stile prendendo il più bello fra i mortali e il più grande fra gli dèi: la bellezza dell’essere umano ha carpito i sensi delle divinità stesse, il valore dell’umano è diventato divino. In questo Giove e Ganimede facciamo notare infine che le teste e soprattutto i capelli appartengono ancora allo stile arcaico ma, lo ripetiamo, si tratta di una delle primissime raffigurazioni classiche, e pertanto è una scultura di passaggio. Come tutte le statue greche era colorata, e tracce di colori vivaci si sono conservate in alcuni punti. Il gruppo in argilla si trova al Museo Archeologico di Olimpia.
Sempre nella Grecia classica dell’inizio del V secolo a.C., troviamo raffinati dipinti della coppia sugli oggetti in ceramica. Il cratere attico a calice attribuito al pittore Eucharides e datato 490-480 a.C. ne è un esempio (Fig. 7). In questo recipiente destinato a mescere il vino, possiamo osservare Ganimede con gli occhi ossequiosamente abbassati, nell’atto di versare il nettare divino a Zeus, il quale gli porge la sua kylix, il bicchiere da cui berrà.
Il recipiente che tiene Ganimede è chiamato oinochoe, un vaso destinato in realtà a contenere il vino (vino in greco si dice “oinos”).
Cosa bevevano allora gli dèi? Vino o miele? E possibile che il miele fosse considerato superiore al vino?
In verità il fatto che il nettare, o ambrosia, fosse la bevanda divina per eccellenza è dovuto al semplice motivo che il vino fu un’invenzione successiva. |
fig.6 |
fig.7 |
Lo si deve infatti a Dioniso – Bacco per i Romani – il dio giunto in Grecia dall’Asia Minore ed il cui culto è antichissimo come testimoniano alcune tavolette cretesi risalenti al II millennio a.C.
Ai tempi in cui fu dipinto questo vaso, il vino era quindi ormai noto da un migliaio di anni; tuttavia il nuovo gusto unito ai suoi effetti, si diffuse stabilmente soltanto a partire dal V secolo a.C., quando la viticoltura divenne un’attività specializzata, e fu da quel momento che il vino sostituì definitivamente l’antichissima ambrosia. Ecco allora che dal recipiente che tiene Ganimede, possiamo capire che ciò che si prepara a versare non è più nettare ma vino.
L’aquila, uno dei simboli di potere di Zeus, è appollaiata in cima al suo bastone, evidentemente usato in qualità di scettro, altro simbolo di potere, ed è rivolta verso il dio, ad indicare chi detiene il comando. Il tripode su cui siede il re degli dèi e la maestosa tunica che lo avvolge contribuiscono di nuovo a sottolineare la regalità del dio.
Ganimede è invece nudo, ma non in contrapposizione alla potenza di Zeus, bensì per quel miracolo che rappresentava il corpo umano nella nuova visione del tempo. A differenza dei nudi maschili arcaici – l’uomo è stato infatti sempre rappresentato nudo – in cui i lineamenti |
erano meno marcati, ora i muscoli sono ben evidenziati, segno appunto della nuova concezione del corpo umano. Egli infine ha i capelli corti, e questo può avere due spiegazioni: 1) Ganimede è stato ritratto in età adulta, probabilmente ad iniziazione appena avvenuta. I ragazzi infatti erano soliti portare i capelli lunghi fino all’adolescenza, mentre il passaggio all’età adulta ne prevedeva il taglio; 2) i capelli lunghi erano un’acconciatura tipica della Grecia arcaica, mentre nella Grecia classica si potevano vedere anche chiome corte. Questo cratere si può osservare visitando il Metropolitan Museum di New York.
Un’altra pittura molto bella, simile alla precedente, è quella a figure rosse sulla kylix di Oltos risalente al 510 a.C. circa e conservata al Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia (Fig. 8). Ganimede è raffigurato sempre nell’atto di versare il nettare nella kylix di Zeus, quest’ultimo seduto di fronte alla dea Hestia, la dea del focolare, protettrice della casa e della vita familiare.
Di nuovo, Ganimede è nudo ed il suo corpo è estremamente allenato, testimone senza pari della bellezza del corpo umano. I suoi capelli sono raccolti in lunghe trecce che, di nuovo si possono spiegare in due modi: 1) Ganimede non è ancora passato all’età adulta; 2) il vaso, della fine del VI secolo a.C., è uno degli ultimi dell’età arcaica, quando i capelli lunghi erano l’unica pettinatura usata.
Per finire la rassegna della pittura su ceramica, famosissimo è il Ganimede dipinto sul cratere attico a figure rosse del cosiddetto Pittore di Berlino e custodito al Louvre (Fig. 9). Anche questa è una pittura dell’inizio del V secolo a.C. (500-490 a.C.) e stavolta il fanciullo non è rappresentato nella sua funzione di coppiere degli dèi, bensì mentre gioca con il cerchio, mostrando così attraverso l’esercizio fisico la perfezione del suo corpo. Come nel gruppo in argilla da Olimpia, tiene in mano un gallo, il suo dono per Zeus. Se Ganimede nell’antichità è stato rappresentato soprattutto nella sua funzione di coppiere ed esaltato per la sua bellezza, a partire dal Rinascimento l’interesse si è spostato invece maggiormente sull’episodio del suo rapimento.
Nel 1533, Michelangelo dedicò al mito un disegno dalle sfumature erotiche. Ganimede (Fig. 10) è rapito non soltanto fisicamente, ma anche emotivamente e si abbandona estasiato all’abbraccio dell’aquila che lo porterà sull’Olimpo, vetta suprema simbolo della perfezione. Il disegno si trova al Fogg Art Museum di Cambridge.
fig.11 |
Superbo nel suo slancio verticale di 1 metro e 63 centimetri contro i 70,5 di larghezza, è il dipinto del Correggio custodito al Kunsthistorisches Museum di Vienna (Fig. 11). Qui tutto parla di ascesa al cielo, a partire appunto dalla scelta di rappresentare il rapimento di Ganimede su un pannello verticale, al cane alla base del dipinto strategicamente raffigurato di schiena il quale, puntandosi sulle zampe anteriori e alzando il capo verso sinistra, guida il nostro occhio lungo una curva che porta al fanciullo in volo aggrappato alle ali di Zeus. E ancora l’albero a sinistra ed il tronco che si interpone fra il cane e Ganimede, spezzato volutamente in maniera così aguzza, completano l’insieme di elementi verticali che caratterizzano la scena suggerendo l’idea di ascensione.
E’ Zeus con le sue ampie ali spiegate in contrapposizione alla appuntita coda d’aquila che capovolge la verticalità dell’azione concludendola in un traguardo orizzontale: Zeus è il punto d’arrivo del viaggio di Ganimede, la destinazione più alta.
La scelta cromatica infine è di supporto alla disposizione di tutti gli elementi verticali lungo la tela, perché guida la nostra retina nel percorso voluto dall’artista per la lettura del quadro: attratto dal bianco del mantello del cane, l’occhio si sposta al rossiccio del tronco mozzato che, a sua volta, lo spinge al candore del corpo del sorridente Ganimede per poi approdare sul vasto piumaggio scuro di Zeus in forma d’aquila, forte contrasto cromatico corrispondente alla chiusura orizzontale dello spazio. Questo è il “Rapimento di Ganimede” di Antonio Allegri da Correggio, datato 1531.
Se il Ganimede di Correggio sorride e si abbandona divertito a Zeus, completamente diverso è quello dipinto da un altro grande della pittura: l’olandese Rembrandt Van Rijn, che circa un secolo dopo, nel 1635, ritrasse il rapimento collocandolo nella prima infanzia del protagonista (Fig. 12). Come si vede infatti, Ganimede è poco più che neonato e piange disperatamente. E’ completamente terrorizzato come si può capire dall’urina che non riesce a trattenere.
Di primo acchito la reazione di questo Ganimede costituisce senz’altro una sorpresa per lo spettatore, ci si aspetterebbe un rapimento con meno pathos pur nella drammaticità della circostanza. Ma Rembrandt qui ha voluto rendere l’avvenimento il più realistico possibile, anche attraverso la scelta di un Ganimede bambino, come a dire “se accadesse veramente, questa sarebbe la reazione vera”; di fronte a un enorme rapace che plana all’improvviso nel suo largo abito scuro e lo strappa alla sua esistenza tranquilla, un bambino non potrebbe che mettersi a piangere e a urlare come nel più terribile degli incubi.
Ma, volente o nolente, il destino di Ganimede era stabilito fin dall’inizio e lo si può notare dal grappolo d’uva che tiene nella mano sinistra. L’uva diventerà il vino che il piccolo verserà nella coppa di Zeus e degli altri dèi non appena l’aquila giungerà all’Olimpo, regalandogli l’immortalità.
Il quadro di Rembrandt “Il ratto di Ganimede” dipinto su una tela di 177x130 cm, si trova nello Staatliche Kunstsammlungen di Dresda. |
Degli stessi anni è “Il rapimento di Ganimede” di Rubens, dipinto negli anni 1636-1638 e conservato al Museo del Prado di Madrid (Fig. 13). Le pennellate diagonali impresse al cielo seguono il volo dell’aquila che si attorciglia alla vita di un Ganimede colto di sorpresa, e la scena si carica di velocità. Pare di sentire il fruscio di quel planare rapido sulla preda fortemente bramata. L’azione è così fulminea che Ganimede non ha il tempo di rendersi conto di cosa sta succedendo, riesce solo a volgere gli occhi al cielo e a dischiudere le labbra in una muta esclamazione di stupore.
La prospettiva in cui il rapimento è ritratto è diversa, ma come si può notare, il modo in cui l’aquila prende Ganimede è lo stesso di quello dipinto da Michelangelo. Solo la reazione del fanciullo cambia, beato nel quadro di Ganimede, confuso in quello di Rubens. Stupito ma non spaventato è invece il Ganimede di Gustave Moreau del 1886, purtroppo non visibile dal vero perché proprietà di una collezione privata (Fig. 14). Moreau ha intitolato il quadro semplicemente “Ganimede”. E’ infatti la sua figura dalle tonalità chiare che attira immediatamente l’occhio, il quale solo dopo si sposta sugli altri elementi della tela: l’aquila dal ciglio severo e solenne che volge già lo sguardo alla destinazione finale, l’Olimpo, e poi il cane, che come nel dipinto del Correggio fa parte dei protagonisti della vicenda e osserva incredulo Ganimede involarsi. Si notino i raggi dorati attorno alla testa dell’aquila-Zeus e l’aureola ammantata di luce dietro il capo di Ganimede; come nelle icone medievali dove la colorazione dorata simboleggiava la santità, Moreau sembra aver voluto santificare il fanciullo attraverso il tocco di un’aquila dietro cui si cela una divinità, come si capisce appunto dalla corona luminosa che splende dietro la testa dell’animale.
Il rapimento di Ganimede è sacro, frutto di un disegno divino stabilito da chissà quando dal signore degli dèi e degli uomini: Zeus.
Se la pittura è stata particolarmente feconda nella rappresentazione di questo mito, non da meno lo è stata la scultura, che ha visto impegnati artisti di grande fama e talento. |
fig.12 |
fig.13 |
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fig.14 |
fig.15 |
Benvenuto Cellini nel 1550 ha scolpito un Ganimede in posizione di comando rispetto a quanto abbiamo visto finora (Fig. 15). E’ infatti in piedi, l’aquila appoggiata alle sue gambe con il capo alzato e teso a guardarlo, e pende letteralmente dalle sue labbra. La situazione si è qui dunque capovolta: Zeus appare sottomesso dal fanciullo, che lo guarda dall’alto in basso nella posa di chi gli sta per versare il vino e che, oltre a incarnare il valore della bellezza, si fa soprattutto espressione del potere dell’amore, in grado di conquistare tutti, anche il più sommo degli dèi. Cellini inoltre non si è accontentato di scolpire il mito nel marmo, ma ha voluto rappresentarlo anche nel bronzo. Risale a qualche anno prima (1546 circa) la statua in bronzo di Ganimede stavolta in groppa all’aquila (Fig. 16) che, di nuovo, come nella scultura precedente assume così la posizione di comando; del tutto sicuro di sé, sta infatti dando le direttive a Zeus che si appresta a spiccare il volo. Entrambe le statue sono conservate a Firenze, al Museo Nazionale del Bargello.
Nel 1817 un altro genio della scultura, il danese Bertel Thorvaldsen, contemporaneo di Antonio Canova, immortalò anch’egli Ganimede nel marmo, un soggetto evidentemente a lui estremamente caro dal momento che lo ritrasse in numerose sculture. La statua (Fig. 17) si trova dal 2007 al Hermitage di San Pietroburgo e rappresenta il fanciullo nella sua funzione di coppiere. I lineamenti, come si vede nel dettaglio di Fig. 18, sono semplici e idealizzati, estremamente delicati, in sintonia con la grazia con cui il ragazzo si appresta a versare il nettare.
Al Chrysler Museum of Art di Norfolk in Virginia, si trova invece il bellissimo gruppo, firmato sempre da Thorvaldsen, in cui Ganimede è inchinato e si appresta a dissetare Zeus in forma d’aquila (Fig. 19). Il fanciullo si prende cura del rapace con intima e delicata premura, creando così un’atmosfera di densa complicità. Proprio l’estrema eleganza unita all’altrettanto straordinaria semplicità dei tratti, interpreta eccellentemente il pensiero della corrente neoclassica che si affermò nel XIX secolo, dove il fine era rappresentare la bellezza ideale, ispirandosi a coloro che ne furono gli artefici primi, ossia i Greci. |
fig.16 |
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Quando si ode il nome di Pegaso, la mente va all’immagine di uno splendido cavallo alato che corre a briglia sciolta per praterie di cielo. Eppure in origine Pegaso non possedeva le ali. Una delle prime descrizioni della costellazione risalente all’astronomo Eudosso (V-IV secolo a.C.), cui si sono riferiti in seguito gli astronomi Arato (IV-III secolo a.C.) ed Eratostene (III-II secolo a.C.), non accenna infatti a questo particolare che appartiene invece a una tradizione tarda. All’inizio la costellazione non si chiamava nemmeno Pegaso, ma semplicemente Cavallo, nome che si è tramandato fino all’era post Christum, come testimonia il compendio De Astronomia di Igino vissuto nel I secolo d.C. Chi battezzò la costellazione col nome attuale fu l’astronomo egizio Claudio Tolomeo nella sua magistrale opera Almagesto del 150 d.C., consolidando così definitivamente quella tradizione che si era venuta progressivamente affermando sul destriero. Dopotutto il cavallo della costellazione era sempre stato Pegaso, sia che si trattasse della versione con le ali che di quella senza, tanto valeva dunque farlo risplendere col suo nome. Anche quando le ali non erano il suo attributo distintivo, Pegaso fu sin da subito un cavallo speciale e grandiosa sarebbe stata la sua storia, poiché visse al fianco di due eroi del calibro di Perseo e di Bellerofonte.
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Ma partiamo dall’inizio.
La sua discendenza innanzitutto fu straordinaria: i suoi procreatori infatti non furono cavalli, ma esso nacque dall’unione di un dio con una gorgone. Poseidone potente sul mare era suo padre, mentre Medusa dai terribili occhi era la madre. Per via paterna Pegaso era dunque un cavallo intimamente legato all’acqua, ma in realtà lo era anche per via materna, poiché Medusa era una delle tre figlie di Forco e Ceti, divinità marine dei primordi. Le sorelle erano note col nome di Gorgoni che in greco significa le terribili e delle tre solo Medusa era mortale. Prima di diventare un mostro, si diceva che Medusa fosse stata una donna bellissima e che il suo vanto fossero i capelli. Poseidone se ne invaghì ma commise l’errore di possederla nel tempio di Atena, la vergine guerriera figlia di Zeus. La dea punì l’oltraggio trasformando l’innocente in una creatura raccapricciante e oltraggiò la sua chioma facendola diventare un groviglio di serpi agitate. Rese infine il suo sguardo fatale a chiunque lo incrociasse, poiché all’istante ci si trovava mutati in pietra. Abbandonata ed evitata da tutti, Medusa scontava nel silenzio e nella rabbia la sua pena. Ma nel grembo ella portava il figlio di Poseidone o meglio i figli. Due erano le creature concepite col dio: Crisaore, di cui si sa soltanto che significa “colui che ha la spada d’oro” – da crysus oro e aor, arcaico nome greco per spada – e che sarebbe stato il padre di quel Gerione che Eracle uccise nella sua decima fatica, e Pegaso.
Non sappiamo quali fossero le sembianze di Crisaore, ma sappiamo invece quelle di Pegaso e cioè che era un cavallo. Ha sicuramente dell’incredibile, per non dire dell’assurdo, che due esseri acquatici e tanto diversi fra loro, possano dare alla luce un cavallo. Eppure l’evento non suona così strano se si conoscono alcuni episodi della vita di Poseidone. Come Pegaso infatti era profondamente legato all’acqua, così Poseidone era fortemente connesso alla figura del cavallo. Molto tempo prima il dio, per avere la dea dei campi, Demetra, la quale aveva assunto le sembianze di una giumenta per sfuggire al suo corteggiamento, si trasformò in cavallo.
Al tempo della contesa per il predominio sull’Attica invece, venne a gara con Atena e creò il primo cavallo in terra greca battendo il suolo roccioso col tridente. Vinse però la sfida Atena il cui dono per quella regione fu l’ulivo che venne preferito al cavallo di Poseidone. Per tutti questo motivi, il signore del mare aveva fatto del cavallo il suo animale sacro. Ed ecco allora che stupisce meno saperlo originarsi da una coppia così lontana per fisionomia. Se il concepimento di Pegaso avvenne nel segno della passione, la sua nascita avvenne invece sotto quello della spada. Medusa lo diede alla luce prematuramente, quando una lama affilata scivolò decisa lungo la sua gola, uccidendola. Era la lama della falce di Hermes, impugnata da Perseo, l’eroe argivo figlio di Zeus che il malvagio re di Serifo aveva inviato a un’impresa impossibile: prendere la testa della Gorgone. La sua speranza era di sbarazzarsi per sempre di lui e non dover così rispettare il patto di liberarne la madre Danae, fatta prigioniera.
Quando Perseo tagliò la testa di lei via dal collo balzò fuori Crisaore grande e il cavallo Pegaso, e questa fu la causa del loro nome, che l’uno presso le sorgenti d’Oceano nacque e l’altro un’aurea spada aveva nelle mani; (Esiodo, Teogonia, 280-283)
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Proprio così: nel nome, Pegaso portava le proprie origini poiché pege in greco significa sorgente; ed era nato là dove anche Oceano nasceva, là dove fino ad allora aveva dimorato Medusa. Strappato al grembo materno, Pegaso cominciò a cavalcare per le terre greche, qualche volta mostrandosi anche agli uomini i quali, alla vista delle sue ali, restavano ammaliati da una simile meraviglia; ma catturarlo era impossibile, lo si poteva solo ammirare per il breve attimo del suo passaggio nel caso si avesse la fortuna di capitare sullo stesso percorso. Pegaso giunse in Beozia, la terra da cui si alza il Monte Elicona, sacro alle Muse. Proprio lì vi è una fonte Ippocrene che significa “fontana del cavallo”, da ippos cavallo e krene fontana.
A circa venti sopra il bosco [dell’Elicona] c’è la fontana detta “del Cavallo” (Ippocrene): si racconta che scaturì quando il cavallo di Bellerofonte sfiorò il suolo con lo zoccolo. (Pausania, Viaggio in Grecia, 9.31.3)
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Ma anche a Corinto il potere di Pegaso sull’acqua compì il prodigio: un’altra volta il suo zoccolo batté il terreno e acqua cristallina cominciò a zampillare. La fontana, il cui nome è Pirene, esiste ancora oggi e la leggenda vuole che vi si recassero i poeti perché bevendo alla sorgente si riceveva l’ispirazione. Dopo la nascita e le opere miracolose, il mito di Pegaso segue due tradizioni diverse. L’una vuole che accompagnasse l’eroe Perseo nel suo viaggio di ritorno verso Serifo e che, proprio durante questa cavalcata celeste, passasse sopra la terra d’Etiopia. Lì una giovane principessa era stata designata come vittima sacrificale per una creatura terribile che Poseidone aveva inviato lungo il litorale. La giovane era Andromeda, la cui costellazione condivide una stella con quella dedicata a Pegaso: Andromeda era il sacrificio che Poseidone pretendeva per placare la sua ira. La regina d’Etiopia, Cassiopea, madre della ragazza, aveva infatti osato proclamarsi più bella delle Nereidi e le aveva sfidate a una gara di bellezza, sicura della vittoria. Ma così facendo aveva peccato di hybris, per i Greci la colpa più grave nei confronti degli dèi di cui un uomo può macchiarsi. Hybris è tracotanza, il voler raggiungere gli dèi finanche a superarli. L’uomo che peccava di hybris suscitava l’ira divina e solo attraverso un sacrificio si poteva sperare di spegnerla. Fu così che Cefeo, il re e padre di Andromeda, apprese da un oracolo che Poseidone si sarebbe placato solo se la figlia fosse stata immolata alla funesta creatura, conosciuta col nome di Ceto. I morti fatti da Ceto erano troppi per sottrarsi alla richiesta e così, con la disperazione nel cuore, Cefeo fece incatenare la figlia a uno sperone roccioso poco distante dalla riva e tormentato dai flutti. Sulla spiaggia, Cefeo e Cassiopea attorniati da una piccola folla attendevano che Ceto emergesse dalle onde e con un balzo a bocca spalancata si avventasse sulla ragazza. A sorpresa invece uscì dalle nubi, in un galoppo alato, Pegaso, splendido e veloce, devoto al suo cavaliere Perseo, uccisore di Medusa. Alla vista di Andromeda l’eroe sulle prime la scambiò per una statua, dal gran che era immobile e bella. Solo avvicinandosi, dai capelli che ondeggiavano nel vento, capì che era di carne e ossa. Era troppo spaventata e infreddolita per rispondere a Perseo che concitato le chiedeva chi era e perché era incatenata, ma alla fine con gli occhi pieni di lacrime rivelò il suo nome e il destino cui Poseidone l’aveva condannata. Anche senza chiederlo, tutto in lei implorava la salvezza e così Perseo, appreso che sulla riva vi erano i genitori, con una scrollata di briglie spronò Pegaso e volò da loro.
Per piangere potrete avere tutto il tempo che vorrete; per portare soccorso, ci sono pochi attimi. Se io chiedessi la sua mano, io, Perseo, figlio di Giove e di colei che quand’era imprigionata fu ingravidata da Giove con oro fecondo, Perseo vincitore della Gorgone dalla chioma di serpi, che oso andarmene per l’aria del cielo battendo le ali, non sarei forse preferito come genero a chiunque altro? A così grandi doti, col che mi assistano gli dèi, cercherò comunque di aggiungere un merito. Facciamo un patto: che sia mia se la salvo col mio valore! (Ovidio, Metamorfosi, IV, 695-703)
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Il re e la regina accolsero come un segno di Zeus le parole del giovane e lo supplicarono di salvare la figlia. Proprio mentre Perseo ritornava da Andromeda, apparve Ceto, enorme, rabbioso, affamato. Lo separavano pochi metri dalla roccia maledetta ma, prima che potesse scagliarsi sulla principessa, Perseo lo raggiunse e intraprese un combattimento all’ultimo sangue, finché estrasse la testa della Gorgone dalla bisaccia dove la teneva chiusa. Usò lo scudo come uno specchio e lo volse negli occhi di Ceto. In pochi attimi la creatura si indurì in un gigante di pietra contro cui le onde si infrangevano ritmicamente. Perseo scese da Andromeda e dopo averle liberato i polsi dalle catene, la prese con sé e la riportò ai genitori sulle ali di Pegaso. Il patto fu mantenuto e le nozze celebrate; Zeus poi non volle che questa storia andasse perduta e così ecco i protagonisti trasformati in stelle vicino alle costellazioni di Cefeo e Cassiopea ma lontani da quella di Ceto, che noi conosciamo come la Balena:
Con travolgente galoppo, tentando di raggiungere il Delfino, accelera il Cavallo, con una stella fulgente che gl’illumina il petto, ed è concluso in Andromeda, che Perseo armato libera a sé e congiunge. (Manilio, Astronomica, I, 348-351)
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La seconda tradizione lega invece Pegaso a Bellerofonte, figlio di Glauco e nipote di Sisifo re della città di Efira, l’odierna Corinto.
V’è una città, Efira, nella vallata d’Argo che nutre cavalli; qui visse Sisifo, ch’era il più astuto degli uomini, Sisifo, figlio d’Eolo; e un figlio generò, Glauco; e Glauco generò Bellerofonte perfetto, a cui bellezza gli dèi e ardore invidiabile diedero. (Omero, Iliade, VI, 155-160)
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Bellerofonte è noto per aver ucciso la Chimera, combattimento fra l’altro che vinse proprio in groppa al destriero nato da Medusa; ma prima di compiere l’impresa che lo avrebbe consacrato al mondo degli eroi, dovette conquistarsi la mansuetudine dell’animale, ribelle e impetuoso come mare in burrasca, cosa che senza l’aiuto divino non gli sarebbe stata possibile. Si dice che Bellerofonte fu il primo a domare il cavallo alato grazie al morso d’oro che Atena gli fece trovare accanto dopo essergli apparsa in sogno.
Ecco ricevi la malia del cavallo, e mostrala al Padre tuo che doma, sacrificando un toro tutto bianco”. Così gli parve nel sonno che parlasse la Vergine nel livido segno entro l’ombra folta, e subito balzò diritto in piedi e il prodigio era presso e l’afferrò, poi ritrovò felice l’indovino della sua terra, il figlio di Cerano, cui mostrò tutto l’esito dei fatti, come si coricò presso l’ara della Dea tutta la notte dopo il suo oracolo e come la figlia di Zeus del fulmine gli diede l’oro che doma la voglia. (Pindaro, Olimpiche, XIII, 90-105)
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Il padre cui Bellerofonte doveva sacrificare il toro bianco era Poseidone e il motivo per cui viene indicato come padre del ragazzo è da ricercarsi nell’etimologia del nome Glauco – il tradizionale padre di Bellerofonte – che significa semplicemente “il mare azzurro”, epiteto che fa pensare a un dio del mare e che dunque viene a confondersi con la figura di Poseidone. Al verso 90 invece il giovane è detto figlio di Eolo ma è da interpretarsi nel senso di discendente della stirpe di Eolo, dato che il padre di Bellerofonte è Glauco, il cui avo era Eolo. Bellerofonte eseguì quanto Atena gli aveva chiesto; poi le innalzò un altare come gli aveva intimato l’indovino. Anche dopo la leggenda, in tempi storici, la figlia di Zeus ebbe un santuario che commemorava proprio l’episodio in cui, grazie a lei, Pegaso poté essere domato. Si trovava a Corinto patria di Bellerofonte e ne abbiamo notizia attraverso la preziosa opera di Pausania, il quale segue una tradizione in cui è Atena stessa che mette il morso al cavallo e lo dona in seguito all’eroe. Tornando invece al risveglio di Bellerofonte, ecco come cavallo e cavaliere sigillarono i loro cuori:
Allora il forte, Bellerofonte, tese il veleno mite intorno al muso, prese il cavallo alato e salì bronzeo e subito gli suscitò il passo delle armi, e con lui un giorno batté l’esercito delle Amazzoni arciere scendendo i golfi cavi del freddo cielo, e spense i Solimi e la Chimera che spirava fuoco. (Pindaro, Olimpiche, XIII, 114-123)
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La Chimera, una creatura terribile, primordiale, incrocio di quattro animali: aveva la forza del leone, l’astuzia del serpente, la potenza della capra e la distruttività del drago.
Echidna partorì Chimera che spira invincibile fuoco, terribile e grande, veloce e forte; tre teste aveva: l’una di leone dagli occhi ardenti, l’altra di capra, di serpe la terza, di drago possente; davanti leone, drago di dietro, nel mezzo era capra, spirando tremendo ardore di fiamme brucianti; costei l’uccisero Pegaso e il prode Bellerofonte. (Esiodo, Teogonia, 319-325)
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Bellerofonte fu mandato contro Chimera come Perseo fu mandato contro Medusa; Perseo per sottrarre la madre alla schiavitù, Bellerofonte per scontare un peccato che in realtà non aveva mai commesso. Quando ancora viveva ad Efira, la regina lo accusò dinanzi al re di averla sedotta per vendicarsi invece del rifiuto che il giovane le aveva opposto. Antea si chiamava la regina, mentre Preto era il nome del sovrano di Argo. Il re, sdegnato e tuttavia senza il coraggio di condannarlo a morte personalmente – stimava la sua discendenza e lo stesso Bellerofonte che sempre si era mostrato saggio e magnanimo – decise di inviarlo in Licia, in Asia Minore. Là regnava Iobate, padre di Antea. Il giorno della partenza, Preto diede al ragazzo due tavolette d’argilla su cui aveva inciso un messaggio per il sovrano licio. Con parole di ghiaccio raccomandava il suocero di fare in modo che Bellerofonte morisse.
Ma quando giunse in Licia e alla corrente dello Xanto, di cuore l’onorò il re della vasta Licia, per nove giorni gli fece accoglienza, uccise nove buoi. Poi, quando apparve la decima aurora rosee dita, lo interrogò, e chiese il segno a vedere, quello che gli portava da parte del genero Preto. E, quando ebbe avuto il segno funesto del genero, per prima cosa volle che la Chimera invincibile uccidesse. (Omero, Iliade, VI, 175-183)
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Non si sottrasse all’impresa Bellerofonte, nonostante sapesse che significava morte sicura. Con animo valoroso salì su Pegaso e insieme si spinsero in alto, fin quando cordoli di nubi replicati all’infinito, furono per gli zoccoli di Pegaso suolo che nella corsa cedeva dissolvendosi un po’. Trovò l’animale in una piana sassosa, senza alberi; solo sparuti moncherini sparsi qua e là dicevano che un tempo c’erano stati, un tempo prima del passaggio di Chimera e della sua vampa di fuoco. Bellerofonte la osservò abbassandosi in volo ma senza toccare terra e si tenne ancora a debita distanza per studiare il suo avversario.
Questa era stirpe divina, non d’uomini, leone davanti, dietro serpente, capra nel mezzo, soffiava un fiato terribile di fiamma avvampante. (Omero, Iliade, VI, 183-185)
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Appena la belva li vide, si rizzò sulle zampe posteriori spingendo fuoco dalla gola e rabbia dalle narici. L’aria si arroventò e il paesaggio iniziò a tremolare per il calore. Bellerofonte tentava disperatamente di domare Pegaso imbizzarrito e appena poté cercò di farsi un varco in quell’inferno, finché riuscì a puntare la sua lancia là dove batteva il cuore di Chimera: vibrando un colpo potente, la centrò in pieno. Un urlo stridulo salì dallo stomaco della belva mentre le fiamme le si spensero in gola, finché Chimera si accasciò al suolo priva di vita.
Altre imprese Bellerofonte dovette affrontare per volere di Iobate: contro i Solimi, popolo crudele che regnava sulla Licia prima di Iobate e contro le Amazzoni nel Caucaso gelido. Da tutte egli uscì vittorioso.
Iobate conobbe allora ch’era la nobile stirpe d’un dio, e lo trattenne con sé, gli diede una sua figlia, mezzo l’onore gli diede di tutto quanto il regno e i Lici tagliarono un campo per lui, migliore degli altri, bello d’alberata e arativo, perché v’abitasse. (Omero, Iliade, VI, 194-198)
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Bellerofonte divenne un eroe, ebbe in sposa la figlia di Iobate la quale gli diede tre femmine e ricevette sempre molti onori dai popoli della Grecia. Ma venne il giorno in cui anch’egli come Cassiopea peccò di hybris. Avere Pegaso era un privilegio unico, con lui si avventurava nelle zone più alte del cielo; le cime delle montagne stavano sotto i suoi piedi e sul dorso alato del cavallo di Poseidone, aveva visto stelle che non era possibile vedere dalle vette più elevate dove l’aria è rarefatta. Ora voleva vedere gli dèi. Salire su fino all’Olimpo glorioso, conoscere il volto di Zeus, di Demetra, di Atena e di Afrodite, di Hermes, di Apollo, di tutti i dodici immortali che regolavano la vita degli uomini. E una volta lassù, toccare l’immortalità. Ma tutto questo era troppo, un uomo non doveva permettersi di osare tanto. Bellerofonte era perso nell’ebbrezza del suo sogno quando, in una delle sue tante cavalcate celesti, lanciò Pegaso in un galoppo ardito verso l’alto. Assaporava la vertigine di risalire le nuvole squarciandole una dopo l’altra. Troppo per un uomo, ma troppo anche per un eroe: troppo per chi è di stirpe mortale.
Chi guarda avido le cime, è troppo breve per giungere dove gli Dei seggono su troni di bronzo. Pegaso alato rovesciò il suo signore, Bellerofonte, quando volle condurlo alle case del cielo, nel concilio di Zeus. La gioia non giusta ha compimento amaro. indaro, Istmiche, VII, 74-82)
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Bellerofonte precipitò, fu un lungo volo all’ingiù avvitandosi e agitandosi nel vento che lo pressava sul petto e gli sibilava nelle orecchie. I numi tuttavia gli risparmiarono la vita e lo fecero cadere in una pianura della Cilicia chiamata Alea che significa “degli errabondi”, castigo più grande della morte poiché lo costringeva a un rimorso eterno.
Ma quando anch’egli fu in odio a tutti i numi, allora errava, solo, per la pianura Alea, consumandosi il cuore, fuggendo ormai d’uomini. (Omero, Iliade, VI, 202-204)
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Come Perseo, anche Bellerofonte aveva sconfitto una creatura mostruosa, ma a differenza di Perseo non conobbe l’eternità delle stelle.
Ammonisce Pegaso celeste Che gravò il cavaliere della terra, Bellerofonte, sempre a credere in quello che puoi credere, e ciò che non è lecito sperare evitarlo, compagno diseguale, saperlo colpa. (Orazio, Carmina, Il silenzio di Fillide, 4,11,26-32)
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Quanto a Pegaso invece, Zeus lo volle nel firmamento, costellazione grande allacciata ad Andromeda sulla quale vegliano Perseo, Cassiopea e Cefeo.
Or quando screzieranno le stelle l’azzurro del cielo, guarda: vedrai il petto del gorgoneo cavallo, che si crede balzasse col crine cosparso di sangue dalla testa recisa di Medusa incinta. Esso, volando sopra le nubi e di sotto le stelle aveva per terra il cielo e l’ali aveva per piedi. Già le recenti briglie mordeva con la bocca ribelle, quando la rapida unghia scavò la fonte aonia. Or gode il cielo, dove prima s’alzava l’ali, e di quindici stelle risplende luminoso. (Ovidio, Fasti, III, 449-458, 7 marzo)
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L’iconografia dedicata a Pegaso è vastissima. Il cavallo alato ha ispirato artisti di ogni tempo; dal VI secolo a.C. ai giorni nostri, le opere si sono susseguite su un arco di tempo di 2500 anni e in tutte le forme dell’arte, dalla pittura alla scultura alla numismatica. Una delle rappresentazioni più antiche risale al 560 a.C. e si trova su una coppa attica a figure nere attribuita al pittore convenzionalmente chiamato di Heidelberg (Fig. 5). La coppa mostra il combattimento di Bellerofonte con la Chimera e, in accordo con lo stile arcaico della ceramica greca, la scena è fortemente geometrica: i due animali, rappresentati di profilo, sono posti l’uno di fronte all’altro come in uno specchio e ad avvalorare la specularità, vi è l’immagine del cavaliere cui si oppone la seconda testa di Chimera, quella di capra. Nonostante Pegaso si stia impennando e Chimera all’attacco con una zampata, la raffigurazione rimane statica. Ciò che interessa alla pittura vascolare greca del VI secolo è la geometria, il dinamismo sarà prerogativa dello stile classico del secolo successivo. La coppa è detta Siana perché ricalca quelle della necropoli di Siana sull’isola di Rodi a cui si rifecero i ceramisti attici del VI secolo a.C. ed è conservata al Louvre.
Della fine del VI secolo a.C., circa del 510 a.C., è invece la kylix attica a figure rosse custodita al Museum of Fine Arts di Boston (Fig. 6). La kylix è una coppa che si usava nei simposi per bere il vino e si caratterizza per il corpo ampio e poco profondo sorretto da uno stelo piuttosto alto e da due piccole anse per reggerlo. La coppa che raffigura Pegaso è stata attribuita a un pittore che si chiamava Skythes. Trattandosi di un recipiente destinato al vino, oltre al cavallo sono stati dipinti anche dei satiri e Dioniso. All’interno invece chi terminava la rossa bevanda, si ritrovava di fronte all’enigmatica sfinge disegnata sul fondo. Sempre al periodo arcaico della pittura vascolare, siamo attorno al 500 a.C., è la lekythos attribuita al pittore Diosphos, il quale ha raffigurato la nascita di Pegaso (Figg. 7a, 7b, 7c). Questo tipo di vaso era usato per contenere l’olio, sia come unguento per gli atleti che per condire gli alimenti. Il suo utilizzo infine si estendeva anche alle cerimonie funebri. La scena raffigura Pegaso che spicca il volo dal collo di Medusa sprizzante sangue. La gorgone è accasciata a terra e al di sopra vi è Perseo che grazie ai calzari alati di Hermes, può scappare volando. Nella mano sinistra l’eroe impugna il falcetto, sempre dono di Hermes, con cui ha appena ucciso Medusa, mentre appesa al braccio destro, a forma di mezzaluna, vi è la kibisis, la sacca dentro cui ha posto la testa per controllare il potere degli occhi. Del capo di Medusa si possono vedere i capelli serpentini sulla nuca che spunta dal sacco.
Questo dipinto è interessante perché è uno dei primi in cui, accanto alla tradizionale tecnica a figure nere, dove i personaggi sono di colore nero sullo sfondo rosso della ceramica, si preannuncia la successiva tecnica a figure rosse, quella cioè in cui i personaggi sono di colore rosso su sfondo nero. In questo caso Perseo e Pegaso seguono lo stile arcaico, ma Medusa essendo solo delineata e non colorata di nero, anticipa quello che sarà lo stile dei secoli dal V in poi.
Una bella immagine, potremmo dire angelica, di Pegaso e Bellerofonte si trova su una pelike attica a figure rosse del 440 a.C. attribuita al pittore di Barclay (Fig. 8). La pelike era un vaso da trasporto, simile all’anfora. Pegaso è al trotto e con le sue grandi ali nasconde quasi completamente Bellerofonte, di cui è visibile solo la testa. Il vaso è custodito al Dipartimento di Antichità Greche, Etrusche e Romane del Louvre. |
fig.7a |
fig.7b |
Al 360-350 a.C., verso la fine del periodo classico, risale un cratere a campana a figure rosse proveniente dalla Puglia e conservatosi solo in frammenti (Fig. 9). In uno di questi è visibile Pegaso nel momento in cui viene aggiogato da Perseo. Attorno al cavallo infatti è visibile una briglia e seguendola termina in una mano che altra non è se non quella di Bellerofonte. A confermare l’ipotesi, vi è una costruzione sotto gli zoccoli posteriori di Pegaso che rappresenta la fontana di Pirene, il luogo dove l’eroe ha ricevuto il morso da Atena e ha potuto così domare il cavallo alato. Il cratere si trova in Florida al Tampa Museum of Art.
Un altro bel cratere del IV secolo a.C., estremamente elegante, risalente al 320 a.C. circa, è quello apulo a volute custodito al Los Angeles County Museum of Art (Figg. 10a, 10b). Il vaso è attribuito al pittore della Patera e sul collo si può vedere una raffigurazione alquanto minuziosa di Pegaso.
 fig.10a |
 fig.10b |
Spostandoci invece in ambito scultoreo, al Museo Archeologico Nazionale di Atene si trova un prezioso sarcofago in marmo proveniente da Megiste, una piccola isola fra l’antica Licia e Rodi, oggi chiamata Kastelorizo in greco o Meis in turco (Fig. 11a, 11b). Per le ridotte dimensioni (90x45 cm), più che di un sarcofago si tratta di un ossario su un cui lato, è rappresentata a sinistra la coppia dei defunti seguita al centro da Afrodite nell’atto di scrivere i loro nomi su uno scudo sorretto da un cupido, mentre all’estremità destra è scolpito Bellerofonte che tiene per le redini Pegaso che beve alla fonte Pirene. L’ossario è di epoca romana e risale al 150-180 d.C.
 fig.11a |
 fig.11b |
Rimanendo nella scultura ma con un salto temporale di ben quattordici secoli, possiamo ammirare la raffinata statuetta firmata da Benvenuto Cellini, scultore e orafo fiorentino, conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna (Fig. 12). Mancavano sei anni alla scoperta dell’America, quando Cellini plasmò nel bronzo il suo Bellerofonte che doma Pegaso. La scena colpisce per la forza insita in ogni dettaglio dei corpi e per l’intenso dinamismo che sprigiona. Con tocco sapiente lo scultore ha saputo rendere la forza di Pegaso che si ribella al tentativo di Bellerofonte di aggiogarlo e quella dell’eroe che con la mano sinistra gli afferra il muso, mentre con la destra è pronto a inserirgli il morso in bocca.
Nel 1635, in pieno stile barocco, anche il pittore Peter Paul Rubens si cimentò a dipingere Pegaso nella sua avventura con Bellerofonte contro la Chimera (Fig. 13). Si tratta di un piccolo quadro – solo 34 × 27,5 cm – custodito nel sud della Francia al Musée Bonnat di Bayonne. Nonostante le dimensioni ridotte, la scena è carica di drammaticità. La Chimera, qui visibile sotto forma di leone, assale inferocita i due aggressori. Pegaso appare quasi spaventato, ma Bellerofonte sta già trafiggendo il petto della belva con la sua lancia. Il colore dominante è l’arancione acuito dal rosso dell’abito di Bellerofonte a sottolineare come il combattimento si svolgesse nell’aria avvampata dal fuoco della Chimera. Mezzo secolo più tardi, nel 1690, l’astronomo polacco Johannes Hevelius pubblicava il suo atlante stellare con la rappresentazione mitologica delle costellazioni. Ecco così la tavola uranografica dedicata a Pegaso (Fig. 14). Come vuole la tradizione, il cavallo nel firmamento è rappresentato frontalmente e solo per metà.
Al Palazzo Sandi di Venezia, un edificio del XVI secolo, il pittore Giambattista Tiepolo affrescò nel 1723 il soffitto del piano nobile su commissione dell’avvocato Tommaso Sandi. Il capolavoro che ne uscì si intitola “La forza dell’eloquenza”, in riferimento alla professione del committente (Fig. 15). Fra i soggetti raffigurati vi è anche uno splendido Pegaso che sostiene Bellerofonte nella sua impresa contro la Chimera. La prospettiva è quella dello spettatore che osserva la scena dal punto in cui si trova, ossia da terra.
Il Tiepolo dipinse ancora il cavallo alato nella volta del salone da ballo di Palazzo Labia sempre a Venezia, sua città natale (Fig. 16). Era il 1747 e nel ciclo di affreschi dedicati alle “Storie di Antonio e Cleopatra” figura anche quello intitolato “Bellerofonte su Pegaso va verso la Gloria e l'Eternità”. Cavallo e cavaliere sono rappresentati in tutta la loro grandiosa apoteosi, sebbene in realtà come il mito ci insegna, soltanto Pegaso raggiungerà la Gloria e l’Eternità, perché di lì a poco Bellerofonte verrà disarcionato.
Nel XIX secolo in Inghilterra, un altro pittore di grande fama dedicò uno dei suoi numerosi capolavori al mito di Pegaso (Fig. 17). Si tratta di Sir Edward Burne-Jones, artista che, pur appartenendo al periodo romantico della pittura, miscelò l’arte gotica con quella quattrocentesca dando così vita a uno stile personalissimo, fatto di ritmi lineari e di linee fluttuanti.
Alla Southampton Art Gallery dell’omonima città inglese, è conservato il dipinto intitolato “La nascita di Pegaso e Crisaore dal sangue di Medusa”, eseguito negli anni dal 1876 al 1878. In primo piano, di grandi proporzioni, si distingue Perseo che nella mano sinistra impugna la testa appena recisa di Medusa, guardando bene di volgerla dall’altra parte per non rimanere pietrificato. Nella mano destra tiene invece la spada con cui ha appena ucciso la Gorgone dal cui corpo accasciato si levano Crisaore, teso e con le mani incrociate dietro la nuca, e Pegaso, gigantesco e dallo spirito indomito. Accanto a ogni personaggio infine è possibile leggerne il nome.
Sul finire dell’Ottocento un altro artista inglese, famoso soprattutto come illustratore di libri per bambini, si cimentò nella raffigurazione di Pegaso (Fig. 18). Fu Walter Crane che nel 1892 pubblicò sulla rivista “A Wonder Book For Girls & Boys” il disegno di Pegaso che disarciona Bellerofonte. Il disegno è vivido e ben trasmette l’impulso del cavallo dinanzi al desiderio del suo padrone di voler raggiungere gli dèi e come loro divenire immortale.
Concludiamo la rassegna artistica su Pegaso con un’opera italiana dei nostri giorni. Si intitola “La nascita di Pegaso” ed è opera del pittore milanese Carlo Adelio Galimberti che nel 2002-2003, ha dedicato al mito di Perseo un ciclo pittorico composto di diciannove quadri (Fig. 19).
In questo dipinto di forte impatto emotivo, il candido Pegaso dal crine di sangue è appena venuto drammaticamente alla luce. Il sangue della madre è ancora fresco e cola abbondante lungo la parte inferiore della tela. Da quel collo aperto, solo evocato, prende vita il cavallo mentre il volto di Medusa, ritratto a sua volta di quello del Perseo di Cellini (Fig. 20), è contratto in una smorfia di dolore nobilmente trattenuta.
Ilaria Sganzerla |
 fig.19 |
 fig.20 |
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